Il lunedì 19 ottobre 1987, esattamente 30 anni fa, i mercati finanziari di tutto il mondo piombavano nell’incubo di una nuova crisi del ’29. L’indice Dow Jones a Wall Street crollava del 22,6%, una percentuale più che doppia del peggiore calo accusato proprio dalla borsa americana in un’unica seduta con la crisi finanziaria di fine anni Venti. Eppure, non sembrava di essere sull’orlo del precipizio il venerdì precedente, nessuno aveva anche solo osato immaginare lontanamente che si sarebbe verificato un simile schianto azionario.
Cosa accadde? Il bello è che ancora oggi nessuno è in grado di spiegare realmente l’origine del tonfo. L’unica certezza è che nel decennio precedente, le quotazioni azionarie americane erano salite del 180%, insomma avevano corso tanto, raggiungendo l’apice proprio nell’agosto del 1987, quando iniziarono leggermente a flettere. Da qui, al chiudere nell’arco di una sola seduta a quasi un quarto di capitalizzazione in meno, però, ve ne corre. Pare che l’epicentro del terremoto sia stato Hong Kong, che non a caso risultava quel giorno avere dimezzato i valori dei suoi indici. Da lì, una propagazione a macchia d’olio, vuoi per il panico scatenatosi tra i traders, vuoi pure per alcune coincidenze “tecniche”.
Era accaduto che alcuni programmi di cosiddetto “stop loss”, quelli che chiudono la transazione automaticamente al raggiungimento di un valore minimo prefissato, avessero contemporaneamente amplificato le vendite sul mercato asiatico, inducendo a fare altrettanto anche tra gli operatori di Wall Street. Ci si mise forse anche il clima, perché a Londra non era stato possibile per molti traders recarsi presso la sede borsistica il venerdì precedente per una tempesta, con la conseguenza che alla riapertura delle contrattazioni il lunedì seguente – il 19 ottobre, appunto – iniziarono a vendere, chiudendo le posizioni accese il giovedì prima.
Crolli in borsa senza cause specifiche
Sul piano più propriamente economico e finanziario, non vi fu alcuna causa ad avere provocato i crolli. L’economia americana andava a gonfie vele (siamo negli anni della Reaganomics), quella mondiale pure. E Wall Street correva proprio in virtù della prima fase di globalizzazione finanziaria, avviata sotto la presidenza Reagan e assecondata in Europa da Margaret Thatcher. Che non fosse una crisi vera e propria lo dimostrarono le sedute seguenti: entro la fine del mese, il Dow Jones aveva recuperato metà delle perdite, mentre chiudeva il 1987 in rialzo su base annua, pur ben al di sotto dei massimi toccati in estate. Lo stesso andamento si verificò un po’ ovunque. (Leggi anche: Asia e Africa, nuovi protagonisti della globalizzazione)
E proprio questo rese quel crollo del tristemente famoso “lunedì nero di Wall Street” un caso unico. Esso non fu alimentato da un evento o una notizia di tenore negativo, come accadde nel settembre 2008 con il crac di Lehman Brothers, bensì da fattori tecnici. Fu il segno che l’informatizzazione avanzata fosse un’arma a doppio taglio, lungi dalla perfezione. In effetti, da allora i programmi basati sugli algoritmi sono stati raffinati, non prevedendo più oggi la chiusura automatica e brusca delle transazioni in corso, al raggiungimento di un valore minimo impostato dal trader, vigendo una certa flessibilità. E anche le borse si sono adeguate da allora, prendendo spunto dal crash per introdurre la sospensione delle contrattazioni per i titoli azionari che accusino perdite superiori a una certa percentuale.
L’intervento verbale della Fed
L’intento di queste misure fu di contenere e non amplificare le perdite, assegnando al trader un po’ di tempo per riflettere e non vendere sull’onda emotiva. Ma la prosecuzione dei crolli fu impedita 30 anni fa anche dall’allora governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, il quale intervenne quel giorno per informare che avrebbe iniettato la liquidità sufficiente a consentire gli scambi. I mercati ripresero fiducia e tornarono gradualmente ad acquistare. Alla lunga, quell’intervento potrebbe avere generato un’eccessiva compiacenza tra i traders, i quali negli anni hanno confidato forse eccessivamente sulle banche centrali, slegando gli acquisti dalle loro valutazioni dei fondamentali.
La prima e forse più grande lezione di quel lunedì nero fu che l’integrazione dei mercati finanziari portasse con sé pure i rischi di una immediata diffusione di crisi locali. In questi 30 anni, i mercati si sono ulteriormente globalizzati, incrociando i propri destini. E se nel 1987 l’integrazione riguardava solamente l’orbita americana, oggi tocca quasi tutte le economie, essendosi sbriciolato l’Impero Sovietico ed essendosi aperta al mondo pure la Cina. Nel frattempo, il grado di liquidità sui mercati è di gran lunga cresciuto e ciò rappresenta un argine a possibili crolli estemporanei, che si verificano in presenza di scambi contenuti. Non è un caso che i cosiddetti “flash crash” avvenuti negli ultimi tempi e riguardanti sterlina, Bitcoin e oro si siano registrati nelle ore notturne. (Leggi anche: FMI avverte su prossima crisi finanziaria: bassa volatilità e alti debiti)