L’euro ha tagliato l’1 gennaio scorso il traguardo dei 20 anni. Era il 1999, quando diventava la moneta di riferimento di 12 stati dell’Unione Europea, sebbene abbiamo dovuto attendere 3 anni più tardi per averlo fisicamente in tasca. Adesso, a utilizzarlo sono in 19, ma non è stato un compleanno semplice. Se dalla Commissione europea si continuano e inviare messaggi all’insegna dell’ottimismo, per cui l’euro sarebbe stato un indubbio “successo”, che qualcosa non vada lo testimoniano gli appelli incessanti che il governatore della BCE, Mario Draghi, continua a rivolgere ai governi dell’area ogni due e tre per rendere l’unione monetaria una costruzione “completa”.
Gli italiani si considerano perlopiù vittime dell’euro, sebbene sarebbe corretto ricordare come la sola marcia di avvicinamento ad esso ci abbia consentito di risparmiare 5-6 punti di pil di spesa per interessi sul nostro immenso debito pubblico ogni anno. Numeri, che ci raccontano un’amara verità, cioè che se avessimo speso bene quei denari risparmiati, investendoli in scelte oculate, anziché sperperarli sostanzialmente in spesa corrente, oggi saremmo probabilmente in una condizione socio-economica e finanziaria del tutto differente.
La spesa pubblica italiana ha corso anche con l’euro, sprecando il crollo degli interessi sul debito
Invece, la foto dell’Italia degli ultimi 20 anni appare sbiadita. Il pil è cresciuto di meno di 630 miliardi, vale a dire di circa il 55,5% al 31 dicembre scorso. Al netto dell’inflazione, equivale a una crescita complessiva di appena il 13,5%, qualcosa come lo 0,6% medio all’anno. E tenendo conto anche delle variazioni demografiche, scopriamo che il pil pro-capite risulta cresciuto persino meno, dello 0,29% medio all’anno. Una percentuale impercettibile, che giustifica la sensazione comune che di passi in avanti da quando abbiamo l’euro non ne abbiamo compiuti.
Bene Made in Italy e consumi
Contrariamente a quanto pensiamo, però, la moneta unica non ci ha impedito di esportare, anzi le nostre esportazioni hanno iniziato a fiorire proprio in coincidenza con l’entrata dell’Italia nell’Eurozona. Come vi abbiamo spiegato in un articolo di qualche tempo fa, nei “mitici” anni Ottanta della spesa pubblica allegra (leggi anche: Come la Germania fregò l’Italia anche negli anni Ottanta della lira), dell’inflazione alle stelle e delle svalutazioni della lira a ogni piè sospinto, nemmeno per un solo anno l’Italia riuscì a chiudere la bilancia commerciale in attivo, cioè eravamo un’economia importatrice e abbiamo dovuto attendere la seconda metà degli anni Novanta per diventare esportatori netti. Sotto l’euro, la dinamica commerciale è rimasta positiva fino ai primi anni del Duemila e successivamente è tornata negativa fino al 2012, anno in cui si è registrata una netta ripresa, inizialmente dovuta più al tonfo dei consumi e negli anni seguenti, però, rafforzata dall’indebolimento del cambio.
In 20 anni di euro, le esportazioni nette cumulate sono state pari a 186 miliardi di euro, il 30% della crescita del pil nel periodo. Il dato viene surclassato dai 1.050 miliardi di euro di maggiore debito, pari a 1,67 volte la crescita del pil, a conferma che l’eccesso di spesa pubblica non trainerebbe l’economia. Vero è, però, che nello stesso ventennio abbiamo speso ben 1.450 miliardi di euro solo di interessi, al netto dei quali la spesa pubblica è risultata di 400 miliardi in meno rispetto alle entrate, vale a dire che lo stato italiano ha “sottratto” pil per un tale importo alla crescita del periodo. Del resto, grossa parte degli interessi è stata corrisposta a banche e famiglie italiane, per cui è rientrata dalla porta di servizio a far parte dell’economia domestica, traducendosi in denaro da spendere per i consumi o per erogare prestiti o per investire.
Gli interessi sul debito hanno azzerato i sacrifici degli italiani
Se gli avanzi primari hanno contribuito a deprimere la crescita economica, lo stesso dicasi per gli investimenti fissi lordi delle imprese, scesi ormai a una percentuale non superiore al 15,5% del pil, circa un punto in meno rispetto a fine anni Novanta. Sommando gli investimenti pubblici, arriviamo al 17,5% contro l’oltre il 22% del 2007. Viceversa, i consumi delle famiglie hanno fatto la loro parte, se è vero che sono aumentati sia in valore assoluto, sia in termini reali, salendo da un’incidenza del 50,6% del pil del 1999 a una del 56,9% dello scorso anno. Parliamo di oltre 400 miliardi di euro in più all’anno, +26% al netto dell’inflazione cumulata dal 1999 al 2018. Secondo dati ancora non ufficiali, il valore dei consumi avrebbe superato di pochissimo la soglia dei 1.000 miliardi, a fronte di un pil inferiore ai 1.760 miliardi.
Il peso degli interessi sulla crescita
Riassumendo: l’Italia sotto l’euro non è cresciuta, anche se le cause potrebbero non avere alcuna origine in esso o solo parzialmente. L’economia nazionale è stata trainata in questi ultimi 20 anni dai consumi delle famiglie, per quanto particolarmente deboli siano stati dal 2007 in poi, in coincidenza con l’esplosione della crisi. Gli investimenti non hanno contribuito positivamente, se non nei primi anni Duemila, a causa dei tagli sia dello stato per quelli pubblici, sia delle imprese per quelli di loro pertinenza. Questi ultimi, in termini reali, risultano diminuiti del 18% nel 2018 rispetto al valore del 1999. Favorevole l’andamento dell’export, che ha rappresentato il 30% della crescita nominale.
Bisognerebbe ripartire da queste constatazioni per capire dove agire per stimolare la crescita. Il Made in Italy si mostra un ingrediente essenziale da tutelare, mentre gli avanzi primari dovrebbero essere contenuti per non sottrarre quote di pil all’economia. Tuttavia, ciò sarebbe possibile solo con un contenimento della spesa per interessi, altrimenti equivarrebbe a fare esplodere il deficit, cosa che non potremmo permetterci e né avrebbe senso nel medio-lungo termine.
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