In Italia ci vogliono 20 anni di lavoro per ottenere una rendita pari a quella prevista dal trattamento minimo. Vale a dire 614 euro al mese per il 2024. Opzione che non è prevista per tutti i lavoratori, ma solo per coloro che possono far valere almeno una settimana di contribuzione prima del 1996 e quindi potranno ottenere una rendita liquidata col sistema misto. A chi ha iniziato a lavorare dopo tale data (contributivi puri), non spetterà nemmeno la pensione minima.
E’ una delle stranezze, se vogliamo, del nostro ordinamento previdenziale che conduce a ingiustizie e a disparità di trattamento fra i lavoratori.
La pensione minima vale 20 anni di lavoro
Letta in altri termini, si potrebbe tranquillamente dire che la pensione minima vale circa 20 anni di lavoro. Per arrivare a questa conclusione siamo partiti dalla retribuzione media di un lavoratore dipendente pari a 20 mila euro all’anno sulla quale vengono calcolati i contributi nella misura del 33%. Il montante contributivo accumulato dopo 20 anni produrrà all’età di 67 anni una rendita di circa 8.000 euro all’anno, pari a quella prevista oggi per la pensione minima di 614 euro al mese.
Ovviamente si tratta conti della serva e di casi limite, ma che in Italia sono sempre più frequenti considerando il basso livello dei salari, il lavoro precario e i vuoti contributivi che i lavoratori si ritroveranno a fine carriera. Avere un montante contributivo di 143 mila euro (dopo 20 anni di lavoro) a 67 anni, età per la pensione di vecchiaia, equivale infatti a ottenere una rendita annuale pari a quella integrata al minimo. E sono molti coloro che faticano a superare tale soglia.
Ricordiamo che l’integrazione al trattamento minimo è un istituto introdotto dall’articolo 6 della legge 638/1983. Tutela i pensionati, al di sotto di un determinato livello di reddito, il cui assegno pensionistico non è sufficiente a garantire una vita dignitosa. Val bene nei casi in cui il livello dei salari è alto e/o qualora non vi sia inflazione, ma non nel caso contrario.
Quando l’integrazione discrimina
Questa integrazione è infatti una misura di assistenza che lo Stato corrisponde al pensionato attraverso l’Inps. In particolare quando la pensione, derivante dal calcolo dei contributi versati, è di importo molto basso. Ovvero, al di sotto di quello che viene considerato il “minimo vitale”. Se tale cifra sale per effetto della perequazione automatica e, anzi, si incrementa ulteriormente, come avvenuto quest’anno (+2,7%) e i salari non crescono, si crea un effetto indesiderato.
Per assurdo si potrebbe immaginare che qualsiasi lavoratore possa ottenere una pensione da 614 euro al mese con pochi contributi versati all’Inps. Chi, ad esempio, a 67 anni di età, con 20 anni di copertura IVS si ritrova un montante contributivo inferiore a 143 mila euro, avrà diritto comunque a una pensione minima rivalutatile. Soddisfatto il requisito minimo di 20 anni valevole per il diritto, il gioco è fatto. Ma la rendita che lo Stato paga nel tempo non sarà mai commisurata ai contributi versati. Con spiacevoli conseguenze per il debito pubblico
C’è poi da considerare che un lavoratore che non può vantare contributi IVS prima del 1996 non avrà mai diritto all’integrazione al trattamento minimo. Si tratta dei contributivi puri. Pertanto, se dopo 20 anni di versamenti la sua pensione risulterà inferiore all’importo dell’assegno sociale (come previsto dalla legge di bilancio 2024) non avrà diritto alla rendita e dovrà lavorare ancora dopo i 67 anni di età. Due pesi e due misure di un sistema previdenziale ingiusto e inefficiente.
Riassumendo…
- Ci vogliono 20 anni di lavoro per ottenere una rendita pari alla pensione minima.
- L’integrazione al trattamento minimo non vale per tutti i lavoratori.
- Chi ricade nel sistema contributivo puro rischia di lavorare anche oltre i 67 anni di età.