Il Venezuela è uno dei paesi meno liberi al mondo dal punto di vista dell’economia. Peggio fanno solo Cuba e Corea del Nord. Trattasi in buona sostanza di un regime comunista, sebbene formalmente la proprietà privata e la libera iniziativa non siano vietate dalla legge. Ma ci pensa il governo “chavista” a renderle impossibili tra espropri delle attività in mano a imprenditori sgraditi, imposizione di prezzi amministrati e controlli maniacali dei livelli di produzioni. Eppure il presidente Nicolas Maduro vorrebbe smantellare proprio uno dei cardini fondamentali dell’era di Hugo Chavez, al potere dal 1999 fino alla sua morte di inizio 2013.
Fine del chavismo
Dalla telefonia alla petrolchimica, passando per il settore minerario, il governo vorrebbe mettere sul mercato dal 5% al 10% del capitale delle imprese statali. E la prima società ad essere parzialmente privatizzata sarebbe CANTV, un internet provider in mano allo stato. L’obiettivo, stando al governo, sarebbe di rilanciare gli investimenti e stimolare così la crescita dell’economia venezuelana.
Da qualche anno, Maduro sta imprimendo una svolta silente alla sua politica economica, adottando misure più ortodosse che vanno nella direzione di accettare un maggiore grado di libertà economica. Tra l’altro, ha smesso di contrastare il crescente uso del dollaro nella regolazione degli scambi interni. Inoltre, ha consentito alla banca centrale di lottare più seriamente contro l’iperinflazione, di fatto chiudendo i rubinetti del credito. Tuttavia, le privatizzazioni rischiano di essere un’occasione mancata. Chi vorrà mai investire in un paese sotto embargo dagli americani, dove lo stato ha l’ultima parola su tutto? Peraltro, detenendo una quota fino al 10% del capitale non si avrebbe il potere decisionale sufficiente per gestire un’azienda.
I rischi delle privatizzazioni di Maduro
Henkel Garcia, a capo dell’istituto indipendente Econometrica, si mostra ancora più pessimista. Egli scorge il rischio di privatizzazioni in stile Russia post-Urss. Nota, infatti, che pezzi di industria nazionale potrebbero passare dalle mani dello stato a quelle degli amici del regime. E poiché non esistono nel paese regole di monitoraggio dei dati finanziari e autorità indipendenti, spiega che nessuno sarebbe in grado di assicurare che le industrie privatizzate siano gestite bene ed effettuino investimenti razionali.
Più che per convinzione, Maduro punterebbe sulle privatizzazioni per incassare qualche soldo con cui sostenere l’economia depressa. Milioni di famiglie dipendono essenzialmente dagli aiuti alimentari dello stato, i quali consistono in cesti del tutto insufficienti a garantire la sopravvivenza dei beneficiari. Ad oggi il nome della compagnia petrolifera PDVSA non risulta tra le società oggetto di privatizzazioni. La società estrae meno di 750.000 barili al giorno. Nel 2014 sfiorava ancora i 3 milioni e a fine anni Novanta, prima dell’era “chavista”, era arrivata a 3,5 milioni di barili al giorno e, per giunta, con un terzo dei dipendenti rispetto ai decenni successivi.
Petrolio miniera d’oro non sfruttata
Il Venezuela siede sulle più grandi riserve di petrolio al mondo, più di 300 miliardi di barili accertati. Tuttavia, non riesce a sfruttare il boom dei prezzi di questi mesi, poiché la compagnia ha sotto-investito per una ventina di anni. Sotto Chavez prima e Maduro dopo, essa era diventata un bancomat per distribuire prebende pubbliche con cui garantire il consenso al governo. Lo stesso è accaduto con tutte le altre imprese nazionalizzate dallo stato.
Ma le privatizzazioni appaiono uno specchietto per le allodole, se si pensa che queste imprese siano gestite da dirigenti nominati dal governo e il più delle volte senza alcuna capacità manageriale, spesso persino militari strettamente fedeli al regime, come nel caso di PDVSA.