Il prezzo dell’oro durante la scorsa settimana è arrivato a scendere sotto i 1.800 dollari l’oncia, segnando il livello minimo di quest’anno. E pensare che solamente agli inizi di marzo aveva toccato il suo nuovo record storico di 2.043 dollari. Da allora, perde intorno all’11%, qualcosa come circa 220 dollari per un’oncia. Non si direbbe che debba essere questo il trend per il metallo con un’inflazione schizzata quasi ovunque nei paesi ricchi ai massimi da 30-40 anni. In settimana, poi, è arrivato da Londra un dato che forse ci fa capire qualcosa di più su quanto stia accadendo sul mercato aureo.
La caduta del prezzo dell’oro
La Banca d’Inghilterra possiede (oltre alle sue) altre 5.676 tonnellate di oro, affidatele da altre banche centrali per ragioni di sicurezza. Su ordine di questi istituti, acquista o vende oro. Il fatto che il prezzo dell’oro sia sceso un po’ troppo rispetto alle quotazioni di mercato sarebbe l’indizio di qualche grossa vendita. Qualche banca centrale evidentemente sta vendendo. Per quale ragione? Per fare cassa e cercare di ottenere dollari con cui fronteggiare questa fase difficile di rincari delle materie prime. Ma possibile anche che stia semplicemente diversificando le riserve valutarie, optando per asset come i bond, divenuti molto più remunerativi negli ultimi mesi. Basti pensare che il Treasury a 10 anni rendeva circa 1,65% a inizio anno, mentre nelle ultime settimane ha superato finanche il 3%.
La stretta monetaria globale è deprimente per il prezzo dell’oro. Le obbligazioni fanno concorrenza al metallo, essendo asset che staccano cedole. Più alti i rendimenti, minore l’appeal aureo. Nel 2021, le banche centrali avrebbero acquistato complessivamente 456 tonnellate di oro, quest’anno è molto probabile che la loro domanda rallenti o finanche che gli acquisti netti diventino negativi.
Se guardiamo al trend storico dell’oro, abbiamo che esso sia stato sostenuto dal 2008 dalle politiche monetarie ultra-espansive di tutte le principali banche centrali. L’enorme liquidità iniettata sui mercati ha fatto esplodere i prezzi degli asset finanziari, spingendo in basso i rendimenti obbligazionari e accrescendo l’appeal dell’oro. Per non parlare che parte di tali acquisti speculativi abbiano finito per riversarsi proprio sul metallo. Questa era è finita. Se il prezzo dell’oro tornasse ai livelli pre-Lehman Brothers, dovrebbe dirigersi verso 900 dollari, cioè dimezzarsi rispetto ad oggi.
Il rapporto con il petrolio
Tuttavia, lo scenario che abbiamo davanti si rivela molto più complesso. Raffrontando, ad esempio, il prezzo dell’oro con quello del petrolio (gold/oil ratio), otteniamo una media storica 20 dal 1900 ad oggi. In pratica, un’oncia di oro tende a valere 20 volte un barile di petrolio WTI. Ai prezzi di queste ultime sedute, siamo sotto 17,5. In teoria, l’oro sarebbe relativamente deprezzato. O potremmo anche affermare che sia il greggio ad essere sopravvalutato. Se questo scendesse un po’, il rapporto si riporterebbe alla media storica. Se scendesse troppo, salirebbe al di sopra di esso. Invece, se continuasse a correre, il rapporto si allontanerebbe ulteriormente da quota 20. Chiaramente, ragioniamo a un prezzo dell’oro invariato.
In definitiva, l’oro ha smesso di apprezzarsi per via della risalita dei rendimenti. La prospettiva di una stretta monetaria globale preluderebbe anche al “raffreddamento” dei tassi d’inflazione. E, dunque, vi sarebbe nel prossimo futuro minore necessità di correre a comprare lingotti per proteggere il potere d’acquisto. Tuttavia, tra possibili acutizzazioni delle tensioni geopolitiche e inefficacia delle misure monetarie (tardive) di contrasto al carovita, sembra troppo presto per intonare il “de profundis” all’oro.