La riforma pensioni resta per ora lontana. Il robusto rialzo dell’inflazione mette a soqquadro i conti pubblici e quindi anche la spesa per le rendite dello Stato che in Italia pesano per quasi il 17% del Pil.
La priorità per il governo Draghi per il 2023 è quella di difendere il potere di acquisto dei pensionati che sono più di 16 milioni. Un numero molto alto che non può essere trascurato e il loro potere di acquisto va difeso, nell’interesse generale.
Per rivalutare le pensioni serviranno più di 45 miliardi
Cosa significa questo? E’ molto probabile che i pochi soldi a disposizione dello Stato debbano essere impiegati per rivalutare le pensioni dal prossimo anno.
Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), nei prossimi tre anni lo Stato dovrà sborsare 45,4 miliardi di euro per tutelare il potere d’acquisto dei pensionati. Questo nel caso di un inflazione superiore di due punti rispetto a quanto previsto nel Def 2022.
Soldi che dovranno essere stanziati con la prossima manovra di bilancio, l’ultima di questa legislatura. Per cui difficilmente si potranno trovare altre risorse per la riforma pensioni, così come la vorrebbero i sindacati o la Lega, con o senza quote.
Il patto sociale va rispettato
Al momento le pensioni sono rivalutate in misura piena fino a circa 2.600 euro al mese. Oltre tale soglia la percentuale di incremento in base ai dati dell’inflazione diminuisce. Tuttavia i tecnici del governo sono già al lavoro per studiare dei correttivi per mitigare l’impatto delle rivalutazioni sugli assegni 2023.
Le fasce più deboli non saranno sicuramente toccate, ma la soglia dei 2.600 euro potrebbe diminuire così da risparmiare qualcosa in più Per non parlare delle soglie di reddito superiori che rischiano di subire ulteriori ridimensionamenti.
Tuttavia – dice Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali, “c’è un patto sociale che va rispettato” e non si può cambiare continuamente le regole se il debito pubblico sale o scende. Anche perché, negli ultimi anni, le modifiche sulla rivalutazione delle pensioni sono state numerose. E tutte hanno visto un taglio degli assegni.
Il primo a intervenire era stato Monti nel 2011 bloccando per due anni la rivalutazione delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo. Poi, nel 2018, il governo Conte ha portato le fasce da cinque a sette, riducendo l’importo. Da quest’anno si è tornati, quindi, al sistema originario a scaglioni varato da Prodi, con tre fasce.