I media occidentali ne hanno dato il risalto a cui ambiva probabilmente Vladimir Putin, che nel corso del suo Business Forum a San Pietroburgo ha fatto presente che i paesi BRICS si apprestano a lanciare una moneta alternativa al dollaro per gli scambi commerciali e le transazioni finanziarie. Sarà “commodity-based”, vale a dire sorretta dalle materie prime di cui tali paesi abbondano. Ma cosa sono i BRICS? Si tratta di un acronimo usato per la prima volta nel 2001 dall’economista di Goldman Sachs, Jim O’Neill, per riassumere le principali economie emergenti di allora: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Chi sono i BRICS
Nei giorni scorsi, Iran e Argentina avrebbero fatto richiesta di adesione al club. Una mossa mediatica di successo, bisogna ammetterlo, per Mosca. Il Cremlino ha potuto far notare come la Russia sarebbe tutt’altro che isolata. Ahi noi, un po’ è così. La Russia è sotto embargo dall’Occidente, ma gran parte del mondo continua a commerciare e intrattenere relazioni finanziarie con essa. E lo fa sia per ragioni geopolitiche, sia per puro interesse economico. Cina e India, ad esempio, riescono a comprare petrolio russo a sconto di 30-35 dollari al barile rispetto alle quotazioni internazionali.
Davvero i BRICS insidiano il sistema economico-finanziario occidentale, che vede nel Fondo Monetario Internazionale (FMI) la sua principale istituzione? Se ad aderirvi saranno Iran e Argentina, possiamo confermare di essere sulla buona strada. Teheran è a sua volta sotto embargo americano per la sua minaccia nucleare. La repubblica dell’ayatollah Khameini non se la passa affatto bene, tra inflazione alle stelle, povertà dilagante e conflitti regionali con il nemico saudita. Buenos Aires è un caso senza speranze. Passa da un default all’altro, attinge a piene mani ai prestiti dell’FMI, salvo minacciarne il mancato rimborso subito dopo, e non riesce da decenni a risollevarsi dall’incompetenza di chi la governa.
Quanto ai membri attuali dei BRICS, solo la Cina è un’economia solida e con capacità finanziarie elevate. La Russia non lo è per le ragioni che conosciamo. Per quanto ricca di materie prime, ha un PIL pari a un terzo in meno dell’Italia, a fronte di una popolazione di circa due volte e mezzo maggiore. L’India è ancora a un basso stadio di sviluppo, mentre il Sudafrica ristagna e registra al suo interno le più alte disparità sociali al mondo. Infine, il Brasile sarà pure la prima economia sudamericana, ma con margini di manovra fiscali inesistenti.
Per il momento il dollaro non rischia
I BRICS non possono insidiare l’Occidente per il semplice fatto che ne dipendono quasi del tutto. A conferma di ciò, sappiate che la Cina ha da tempo dato vita a un suo sistema di pagamenti alternativo allo SWIFT, chiamato CIPS. Ma non se lo fila quasi nessuno. Vi aderiscono 1.200 istituzioni finanziarie contro le oltre 11.000 del sistema belga. E da qualche anno è persino possibile fare trading sul mercato cinese del greggio in yuan. Eppure nessuno ne ha mai sentito parlare nel concreto. La finanza continua a voler commerciare in dollari, al limite in euro, sterline, yen, non certo in yuan, rubli o rupie.
La stessa Cina detiene 3.000 miliardi di dollari di riserve valutarie, di cui per almeno la metà sarebbero denominate in valuta americana. Possiamo girarci attorno finché vogliamo, ma gli stessi “nemici dell’America” non rinunciano ai suoi dollari. Questo non significa che in prospettiva non vi sia alcun progetto minaccioso per il dominio della finanza dollaro-centrica. Nel lungo periodo, lo yuan potrà diventare una valuta regionale di riferimento in Asia, anche se molto difficilmente lo sarà in Occidente.