Mentre i politici italiani si azzuffano per niente come galline (Franco Battiato ci perdoni da lassù per queste parole in prestito), i cittadini hanno ben altri pensieri che di capire chi entra e chi esce dal governo e cosa dirà il premier Mario Draghi domani alle Camere. Ci sono alcuni temi socialmente scottanti e sui quali la politica ha mantenuto una colpevole coltre di mistero in merito al loro futuro. Uno di questi riguarda la riforma delle pensioni, un altro è il reddito di cittadinanza.
Riforma pensioni addio, niente flessibilità
Per tutto quest’anno, in alternativa alla legge Fornero i lavoratori possono andare in quiescenza con quota 102: almeno 64 anni di età e 38 anni di contributi. Dall’anno prossimo, in assenza di novità legislative tornerà in vigore la legge Fornero tout court: 67 anni di età per andare in pensione; in alternativa, 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.
Fin qui, le ipotesi avanzate sono state tante. Ma il premier già a dicembre aveva chiarito che qualsiasi forma di flessibilità concessa ulteriormente ai lavoratori si sarebbe dovuta finanziare da sola. Ergo, scatteranno senz’altro penalità per chi volesse andare in pensione prima. Quali? Dipende da quale riforma delle pensioni si voterà entro l’anno. Tendenzialmente, si ragiona sull’applicazione del solo metodo contributivo per calcolare l’assegno.
E se Draghi lascia? Ragionando in modo spicciolo, verrebbe meno il propugnatore di questa tesi. In teoria, ci sarebbero più flessibilità e minori penalizzazioni in vista. All’atto pratico, sarà vero forse persino il contrario. L’Europa non avallerà mai una riforma delle pensioni che minacci la stabilità dei conti INPS. A maggior ragione se a vararla fosse un governo diverso da quello guidato da Draghi. Il premier è percepito come un garante dell’ordine macroeconomico in Italia. A lui sarebbe concesso senz’altro qualcosa di più che non a qualunque altra personalità.
Cancellare o riformare il reddito di cittadinanza
Quanto al reddito di cittadinanza, è stato e resta il principale cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle. Se Draghi andasse via, il governo cadrebbe. Difficilmente se ne formerebbe un altro, se non per condurre l’Italia ad elezioni a settembre o ottobre. Da qui fino al voto, il sussidio certamente non rischierebbe proprio nulla. Dopo, dipende da tanti fattori. In primis, da chi le vincerebbe le elezioni. A parte i 5 Stelle, tutti gli altri partiti si sono espressi per “riformare” o finanche “abrogare” il reddito di cittadinanza. I più contrari sono Fratelli d’Italia, Lega, Italia Viva e Forza Italia. Per ragioni di alleanze, il PD è diventato favorevole dopo essere stato aspramente contrario durante il governo “giallo-verde”.
Ma il famoso “campo largo” sognato da Enrico Letta è naufragato nei fatti, per cui lo stesso PD in futuro potrebbe tornare all’idea iniziale sul reddito di cittadinanza. Tuttavia, pensare di cancellare un sussidio che coinvolge ben 2,7 milioni di persone (per due terzi residenti al Sud) per una spesa complessiva di oltre 10 miliardi all’anno appare poco probabile. I detrattori verosimilmente restringerebbero la platea dei beneficiari, una volta saliti al governo. Si concentrerebbero sul rendere il sussidio meno disincentivante al lavoro, specie tra i giovani. Tutti correttivi obiettivamente auspicabili, perché una cosa è aiutare un padre di famiglia di 50 anni rimasto senza entrate, un’altra pagare un ventenne per farlo restare a casa ad oziare.
Lo stesso Matteo Renzi, che sta presentando un referendum abrogativo del reddito di cittadinanza, sa benissimo che non se ne parlerebbe prima del 2024 per celebrarlo.