L’inflazione in Italia è salita a quasi il 12% nel mese di ottobre, un livello mai così alto dal 1984. Le banche centrali avevano rassicurato fino a pochi mesi fa che si trattasse di un fenomeno transitorio, mentre si trovano oggi a combatterlo a colpi di maxi-rialzi dei tassi come non avveniva da decenni. Inizialmente, avevano persino flirtato con la crescita dei prezzi al consumo ai massimi da diversi anni. Vi avevano intravisto un modo per recuperare quella credibilità perduta nel decennio pre-Covid, quando non erano riuscite a centrare stabilmente i rispetti target al 2%.
L’eccesiva quantità di moneta in circolazione sta tenendo alta la crescita dei prezzi. Più di un decennio di stamperie delle banche centrali aveva creato le condizioni per un ritorno in grande stile dell’inflazione. Ciò è avvenuto contestualmente all’esplosione dei prezzi delle materie prime, prese di mira dal mercato per scopi speculativi, grazie proprio alle elevate scorte di moneta disponibili sottocosto e messe a disposizione proprio dalle banche centrali in piena pandemia.
Cosa dice la scuola monetarista
Non tutti gli economisti concordano su questa ricostruzione di stampo monetarista. Quest’ultima parte dalla famosa equazione di Fisher per affermare che l’inflazione sia un fenomeno esclusivamente monetario. In sintesi, essa è data dalla seguente formula:
P = M x V
dove M è la quantità di moneta in circolazione e V è la velocità di circolazione della moneta nell’unità di tempo. In genere, V è considerata una costante dipendente da fattori istituzionali come le cadenze dei pagamenti in un dato contesto normativo (stipendi, affitti, interessi, ecc.). Tuttavia, nel tempo anche V può mutare, specie quando si verificano eventi imprevisti come crisi, guerre, accelerazioni/decelerazioni brusche dei prezzi, ecc.
Monitorando V per la massa monetaria M2 (monete, banconote, conti deposito e quote nei fondi d’investimento) negli USA, nell’ultimo anno stiamo assistendo a una sua crescita come mai dal 2007. Tale valore è salito a circa 1,19 nel terzo trimestre di quest’anno da 1,11 nel secondo trimestre del 2020. Resta nettamente inferiore alla media pre-Covid di 1,45. E pensate che prima della crisi finanziaria mondiale del 2008, si aggirava intorno a 2.
Nel mese di agosto – ultimo mese disponibile per i dati – M2 crebbe del 3,8% su base annua. Questo significa che, nel caso di un V in accelerazione a 1,45, l’inflazione americana tendenzialmente salirebbe di un altro 1%, anziché ripiegare. Se V tendesse, poi, ai livelli pre-2008, l’inflazione aumenterebbe del 3%. Al di là della precisione sui numeri, il senso è quello: se V crescesse, renderebbe molto più complicato il compito delle banche centrali.
Aspettative d’inflazione problema per banche centrali
E da cosa dipende V? Dalla credibilità stessa delle banche centrali di prospettare la stabilità dei prezzi. Dal grafico potete notare che V è stato calante per circa un quindicennio e segnala una risalita negli ultimi mesi. Sembra, cioè, che per anni i cittadini americani (discorso analogo per l’Europa) abbiano tenuto i dollari nel cassetto, credendo che la perdita del potere di acquisto nel tempo sarebbe stata scarsa. Improvvisamente, è come se avessero iniziato a scontare prezzi al consumo destinati a crescere, per cui meglio sbarazzarsi il prima possibile del contante.
Siamo passati dall’era del “cash is king” a quella del “cash is trash”. Il dato rimarca, anzitutto, la potenziale perdita di credibilità delle banche centrali e il surriscaldamento delle aspettative d’inflazione. Più V salirà e maggiori saranno i rialzi dei tassi necessari per riportare l’inflazione sotto controllo. Sempre i monetaristi ritengono, infatti, che per essa giochino un ruolo determinante le aspettative e che più queste divergono (in eccesso) dagli obiettivi di una banca centrale, più dura sarà la recessione necessaria per “raffreddarle”.