La prima manovra di bilancio del nuovo governo è stata varata e il capitolo sulle pensioni assorbe da giorni gran parte delle valutazioni dei cittadini. La novità più saliente riguarda l’introduzione di Quota 103 per lasciare il lavoro in anticipo con almeno 62 anni di età e 41 anni di contributi. La platea dei possibili beneficiari si ferma a 48.000 unità. Prorogati Opzione Donna e Ape Sociale. Ma milioni di pensionati erano in attesa, soprattutto, di conoscere il destino dei loro assegni. Qualche settimana fa, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, aveva firmato il decreto per la loro rivalutazione del 7,3% nel 2023.
In campagna elettorale, Forza Italia aveva promesso l’innalzamento dell’assegno minimo a 1.000 euro al mese. L’allora candidata premier Giorgia Meloni aveva espresso riserve sul punto, invitando gli alleati a formulare solo proposte “credibili” e “sostenibili”. Tuttavia, un primo segnale c’è stato. La pensione minima sarà rivalutata nel 2023 dell’8,76%, vale a dire del 120% rispetto al tasso d’inflazione stimato ufficialmente dal governo per quest’anno.
Pensione minima sopra 570 euro
E così, l’assegno per 2-2,5 milioni di pensionati salirà dai 525,40 euro (importo inclusivo del conguaglio dello 0,2%) di quest’anno ai 571,40 euro di gennaio. Se l’adeguamento fosse stato del 7,3%, l’assegno sarebbe salito a 563,75 euro. L’incremento reale con la manovra per la pensione minima sarà, quindi, di 7,65 euro al mese per tredici mensilità, ovvero di poco meno di 100 euro in un anno. Non è certamente tanto, ma di più con questi conti pubblici non si poteva fare. Il costo della misura è stimabile in 200-250 milioni di euro.
Le risorse necessarie sono state reperite attingendo agli assegni d’importo superiore alle 10 volte la pensione minima, cioè di circa 5.250 euro al mese nel 2022. Infatti, la rivalutazione per loro sarà non più del 90%, bensì del 35%.
Conseguenze per gli altri pensionati
L’aumento della pensione minima, pur di pochi euro in termini reali, comporta ripercussioni anche sugli altri assegni. Ad esempio, salgono così anche le soglie fissate per la rivalutazione a partire dal 2024. Le regole prevedono il recupero dell’inflazione per il 100% fino a 4 volte il trattamento minimo, del 90% tra 4 e 5 volte e del 75% sopra le 5 volte. Ebbene, sulla base delle suddette variazioni, spetterà dal 2024 un recupero integrale dell’assegno ai percettori di importi fino a una trentina di euro in più rispetto al caso in cui la pensione minima fosse stata rivalutata del 7,3%.
Con l’iper-rivalutazione appena decisa dal governo, il recupero del 100% dell’inflazione spetterà l’anno prossimo ai percettori di assegni fino a 2.285,60 euro. Sarà del 90% per i percettori tra 2.285,60 e 2.857 euro al mese. Del 75% per importi ancora superiori. E resta da vedere se sarà ancora una volta applicata la decurtazione per gli assegni sopra 10 volte la pensione minima (> 5.714 euro nel 2023).
Ma ci sono anche risvolti potenzialmente negativi. I contributivi puri, cioè coloro che andranno in pensione solamente sulla base dei contributi versati a partire dal 1996, possono accedere all’assegno a 67 anni di età se in possesso di almeno 20 anni di contribuzione. In più, devono percepire un assegno pari a 1,5 volte la pensione minima. Se questa sale, si alza l’asticella da raggiungere. In parole povere, servono più contributi. A meno che nei prossimi anni il legislatore, preso atto della “falla”, riveda la disciplina più a favore dei lavoratori contributivi.