Il cambio euro-dollaro ieri è risalito ai massimi dal mese di luglio, superando la soglia di 1,05. Dai minimi di fine settembre, la moneta unica guadagna così il 10%. Dal canto suo, il dollaro perde contro le principali valute mondiali oltre l’8% nello stesso periodo. Per l’Eurozona è senz’altro una buona notizia. Considerato anche il calo di alcune materie prime, tra cui petrolio e gas, la pressione sull’inflazione si allenta. Il costo dei beni importati, infatti, si sta riducendo, pur mantenendosi elevato.
Tra le valute a prendere fiato c’è anche la sterlina, che scambia contro il dollaro ai massimi da giugno. Era sprofondata al minimo storico di 1,0350 ad ottobre e in settimana è arrivata a 1,23. Tutto ciò contribuisce ad alimentare il rally di borse e bond. I mercati credono che la Federal Reserve aumenterà ancora i tassi d’interesse, ma non di così tanto. Quindi, i rendimenti dei T-bond arretrano e i capitali ri-affluiscono a Wall Street e presso Europa e Asia.
Dollaro giù, materie prime su?
Gli stessi rendimenti europei si riducono per la riduzione di quelli americani e la prospettiva di una stretta monetaria globale meno drastica. Ma attenzione al dollaro; se si “sgonfiasse” troppo nelle prossime settimane, si ricreerebbero le condizioni per un nuovo ripiegamento dei mercati. Una divisa americana in calo verticale aumenterebbe il costo dei beni importati dagli USA, rinfocolando l’inflazione. La FED sarebbe costretta a reagire tornando ad alzare i toni e i tassi. Il resto del mondo inseguirebbe. Insomma, saremmo punto e daccapo.
Il guaio è anche un altro. L’indebolimento del dollaro tende storicamente a rivitalizzare le quotazioni delle materie prime. Il rischio per le economie importatrici come l’Area Euro consiste nel vedersi più che annullato l’effetto cambio dalle variazioni dei prezzi di prodotti come l’energia e i metalli industriali. L’unico asset che continua a non scaldarsi è l’oro, il quale risente negativamente della risalita dei rendimenti obbligazionari.