La Cina aiuta militarmente la Russia nella guerra con l’Ucraina. A dirlo ufficialmente sono gli Stati Uniti, che temono il fronte comune asiatico contro l’Occidente. E Pechino allunga le mani su tutto il continente, come dimostra anche un evento storico avvenuto nei giorni scorsi. L’Iraq ha stretto un accordo con la Cina per regolare gli scambi in yuan. La decisione è arrivata a seguito della lamentata carenza di dollari da parte di Baghdad. Washington si è girata dall’altra parte e così il governo del premier Mohammed Shia al-Sudani si è rivolto a Xi Jinping, che è stato ben lieto di accontentarlo.
Iraq sempre più lontano da Washington
Sul piano concreto, cambierà poco. La quasi totalità delle esportazioni irachene in Cina è rappresentata dal petrolio (99,6% nel 2020). E questa materia prima è esclusa dagli scambi in yuan. Continuerà ad essere pagata in dollari. Pertanto, non siamo dinnanzi a un “game changer”. Tuttavia, questo fatto segnala che gli Stati Uniti abbiano perso quasi definitivamente un alleato costato la bellezza di oltre 1.000 miliardi di dollari dal 2003 con la seconda guerra del Golfo, seguita da anni di difficilissima gestione post-bellica.
L’Iraq è prima passato sotto il controllo geo-politico dell’ex nemico iraniano, acerrimo rivale anche oggi degli Stati Uniti, e oggi guarda più alla Cina che all’Occidente, essenzialmente per le sue esportazioni di petrolio. Il punto è che la Cina ha stretto simili accordi con altri stati importanti dell’Asia, come India, Russia e Pakistan. Pechino sta cercando di rendere lo yuan una valuta internazionale di riferimento in alternativa al dollaro. Non è ancora nelle condizioni di poter sfidare credibilmente il biglietto verde neppure nel suo cortile di casa, ma la guerra russo-ucraina sta accelerando il processo.
Asia e Sud del mondo cercano alternativa al dollaro
Il dollaro è stato “weaponized”, per usare un termine inglese, vale a dire è usato sempre più come arma per imporre sanzioni a carico degli stati ostili agli Stati Uniti. Da ultimo, il caso della Russia. Ciò assegna nell’immediato un forte vantaggio a Washington, ma tende a ridurre la fiducia nel mondo verso la finanza dollaro-centrica. Decine di governi temono di fare la fine di Mosca nel caso di un possibile dissidio con la Casa Bianca. E già si guardano intorno. La Cina sarà meno affidabile della superpotenza americana, ma presenta caratteristiche più congeniali agli occhi di governi autoritari o apertamente dittatoriali.
Dicevamo, l’Iraq costò agli Stati Uniti non meno di 1.000 miliardi tra operazioni militari e assistenza finanziaria diretta e indiretta. Altrettanti – ma alcune stime arrivano a 2.000 miliardi – sono stati investiti in venti anni di occupazione dell’Afghanistan. E la conseguenza è sotto gli occhi del mondo: al potere sono tornati i talebani con il tacito assenso dell’amministrazione Biden. Un altro paese considerato “strategico” per gli equilibri geopolitici e sul quale l’America aveva investito tantissimo del suo capitale finanziario, militare e diplomatico, e che è andato perduto. Tant’è che oggi Kabul tratta con Pechino per ottenere lo sfruttamento delle sue miniere, di litio in primis. In cambio, chiuderà un occhio sulla repressione degli uiguri, minoranza mussulmana perseguitata nel Nord-Ovest della Cina.
Amministrazione Biden rischia flop anche in Ucraina
Migliaia di miliardi di dollari andati in fumo, letteralmente. Bruciati senza averne ricavato benefici di lungo periodo e che gravano su quell’immenso debito pubblico da 31.400 miliardi di dollari su cui si scannano da mesi Congresso e Casa Bianca per innalzarne il tetto. Se questo è il modo in cui gli americani spendono i loro denari, difficile che possa andare avanti così a lungo come superpotenza.
L’Iraq è la spia dell’incapacità ormai consolidata degli americani di gestire le fasi post-belliche. Baghdad è stata abbandonata all’insicurezza, agli scontri intestini e al malessere economico. In Afghanistan è andata molto peggio. Il paese è rimasto poverissimo esattamente come quando nel 2001 erano stati cacciati i talebani. Il mancato sviluppo dell’economia e la corruzione dilagante hanno foraggiato il sostegno della popolazione locale ai gruppi islamisti. La ritirata delle truppe americane ha lasciato il segno, creando sfiducia e sgomento verso gli Stati Uniti.
Ora c’è il caso iracheno, nulla che possa impensierire Washington sul piano economico, ma ennesimo indizio di come una parte crescente del pianeta stia voltando le spalle alla non più indiscussa superpotenza mondiale. E la vittoria di Lula in Brasile, che l’amministrazione Biden ha salutato con piacere per vedersi togliere dai piedi quel “trumpiano” di Jair Bolsonaro, sarà un boomerang per l’Occidente. Il nuovo presidente già sta avvicinando la prima economia sudamericana all’asse sino-russo.