E’ stato uno choc per l’Occidente avere appreso del taglio della produzione di petrolio deciso dall’OPEC, domenica. Dal prossimo mese, ci saranno 1 milione di barili al giorno in meno disponibili. E questo inevitabilmente sta già provocando un aumento dei prezzi. Brutta storia per economie come Stati Uniti ed Europa, alle prese da oltre un anno con tassi d’inflazione mai visti sin dagli anni Ottanta/Novanta. Proprio nelle ultime settimane si era diffusa una certa fiducia circa la capacità di riuscire a disinflazionare le economie.
Le economie avanzate abbondano di capitali e ne hanno fatto un punto di forza. La sfera finanziaria è cresciuta abnormemente, al punto da essere diventata un settore trainante di molte economie e da incidere sulla stessa produzione di ricchezza reale in misura determinante. Con la crisi mondiale del 2008, le banche centrali risposero stampando moneta per evitare che le economie entrassero in un mix di depressione e deflazione. Riuscirono nell’intento e proseguirono fino allo scorso anno con acquisti di asset finanziari per iniettare dosi sempre più massicce di liquidità sui mercati. Ingigantendo i loro bilanci, credettero di avere trovato un’alternativa alla produzione di beni materiali e servizi.
Produzione di ricchezza non è stampa di moneta
La “new monetary theory“ si stava diffondendo per rimpiazzare tutte le teorie tradizionali sul rapporto tra moneta e produzione di ricchezza reale. La convinzione per cui le banche centrali possano stampare moneta senza limiti per garantire il benessere sociale, si è rivelata fallace. E i paesi del blocco anti-occidentale stanno facendo di tutto per farci capire che la ricchezza non la si crea presso il quartier generale di una banca centrale.
Questo è il livello dello scontro tra Occidente finanziario e il blocco asiatico “commodity-based”. Ciascun blocco sta cercando di usare come un’arma contro l’altro i beni di cui abbonda. Stati Uniti ed Europa puntano sulla finanza dollaro-centrica per mettere soggezione ai propri nemici, mentre Cina e Russia sfruttano le materie prime per mettere nell’angolo i propri stessi clienti. La decisione dei sauditi di tagliare la produzione di petrolio va nella direzione di offrire sostegno al blocco asiatico contro quello occidentale.
Le conseguenze possono essere devastanti. Una nuova “guerra” del petrolio terrebbe alta l’inflazione in Nord America e, soprattutto, in Europa. Le banche centrali sarebbero costrette a continuare ad alzare i tassi d’interesse fino al punto da mandare in recessione le economie. A prima vista, non sarebbe uno scenario favorevole neppure per il blocco sino-russo, che vive di esportazioni. Ma ci troviamo in una fase eccezionale sul piano geopolitico. Nessuno dei due blocchi desidera che l’altro primeggi in Ucraina. In gioco vi è la riscrittura delle regole per la costituzione di un nuovo ordine mondiale. E chi vince, si sa, le regole le scrive in base ai propri interessi.
In gioco nuovo ordine mondiale
Un Occidente fiaccato economicamente potrà offrire minore sostegno a Kiev contro Mosca. Ciò sporterebbe gli equilibri in campo a favore dei russi. E la Cina potrebbe dettare le sue condizioni per i decenni futuri. Gli Stati Uniti stanno commettendo l’errore di ignorare la dipendenza propria e degli alleati dalle materie prime importate dall’estero.
Il riposizionamento saudita nello scacchiere internazionale aumenta le incertezze attorno al futuro dell’Occidente. A corto di materie prime, dovrà prima o poi scendere a compromessi con il blocco asiatico o può credibilmente pensare di massimizzare la sua pressione su questi grazie all’abbondanza dei capitali? L’aspetto positivo della vicenda è che dopo anni di ubriacatura quasi ideologica, siamo tornati a pensare che la produzione di ricchezza non avvenga a colpi di moneta stampata nelle banche centrali, bensì con la creazione di beni in fabbrica. Avevamo smarrito il concetto di “fabbricazione” dei prodotti, pensando che avremmo potuto vivere di soli servizi e finanza, azzerando l’inquinamento e la fatica fisica quasi per magia.
Siamo entrati in una nuova fase, che definiremmo di re-globalizzazione. Non è la fine della globalizzazione intesa come apertura dei commerci e libera circolazione dei capitali. Più pragmaticamente, ciò avverrà ai livelli massimi all’intero di ciascun blocco geopolitico, mentre le relazioni economiche e finanziarie tra i blocchi sarà limitato allo stretto essenziale. Non subito, perché serve re-localizzare le produzioni spostate dalle imprese occidentali in Asia negli ultimi decenni. E non sarà un processo semplice, perché i paesi detentori minacciano di trattenere in casa le materie prime necessarie alla produzione. L’Occidente pensava di trionfare grazie alla finanza. Ha compreso che deve tornare ai fondamentali dell’economia per sperare di non soccombere.