Sindacati e lavoratori si preoccupano di come andare in pensione presto. Ma nessuno si interessa del futuro trattamento dei giovani lavoratori. In particolare dei 40enni di oggi, cioè coloro che hanno iniziato a versare contributi dopo la famosa riforma Dini del 1995.
Pochi lo sanno, ma l’allora banchiere e capo del Governo stravolse l’assetto pensionistico italiano introducendo il sistema di calcolo contributivo delle pensioni. Fra le altre cose eliminò alcune importanti tutele a favore di chi non poteva vantare contributi prima del 1996.
Pensione futura, ai giovani non pensa nessuno
Una visione miope delle cose per preservare il diritto di chi sta per andare in pensione, senza pensare ai giovani lavoratori. O meglio, quella generazione di nati negli anni 80 e che andranno in pensione con un monte contributivo poco rivalutato e con un sistema di calcolo della pensione puramente contributivo. Quindi, penalizzante rispetto a quello retributivo.
A conti fatti, si tratta di una beffa. Il tasso di sostituzione per chi potrà vantare una carriera lavorativa senza interruzioni e con una retribuzione discreta, sarà del 60-65%. A titolo di esempio, chi oggi guadagna 1.500 euro al mese, avrà una pensione pari al massimo a due terzi dell’ultimo stipendio. Contro una pensione quasi simile all’ultima retribuzione per la generazione che l’ha preceduta.
Senza parlare di chi avrà svolto lavori saltuari, mal pagati, con vuoti contributivi e periodi di disoccupazione. Per costoro il rischio di non raggiungere la pensione nemmeno a 67 anni, pur magra che sia, è concreto. Il legislatore ha infatti posto dei limiti di importo per poter godere del trattamento previdenziale. Cioè avere almeno una pensione pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (oggi 503 euro al mese), il che corrisponde a poco più di 1.000 euro al mese.
Al di sotto di tale livello, pertanto, non si ha diritto alla pensione di vecchiaia e bisogna aspettare altri 4 anni per prendere il trattamento dall’Inps. Una fregatura bella e buona che coinvolge solo coloro che non hanno contributi prima del 1996, cioè i 40enni di oggi che lavorano e tutti i giovani lavoratori.
Rendite da fame
Il precedente governo Draghi non si è preoccupato dei giovani e quello Meloni, per ora, non ha fatto ancora nulla per i giovani lavoratori. Cioè per coloro che lavorando sostengono le pensioni degli anziani, di quelli che hanno lasciato il lavoro magari dopo soli 19 anni e 6 mesi di lavoro (baby pensionati) o di chi ha ricevuto il premio della pensione retributiva senza le adeguate coperture finanziarie.
Il peso di questo sfacelo ricade unicamente sui giovani di oggi. E nessuno sembra preoccuparsene. Chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 non potrà beneficiare nemmeno della pensione integrata al trattamento minimo (563,74 euro al mese nel 2023).
Il presidente del Inps Pasquale Tridico ha più volte messo in evidenza la necessità di occuparsi dei giovani che dovrebbero essere sempre più incentivati nel mercato del lavoro.
“In questo caso gli strumenti sono molti ma si rivolgono sempre a platee ristrette mentre, occorrerebbe alleggerire i criteri di accesso a decontribuzione giovani già introdotti in passato per rendere queste misure più efficaci”.
Pensioni sempre più basse e rischio povertà
Sicché più passa il tempo e minori sono le possibilità di poter andare in pensione a 67 anni. Il rischio è che si debba attendere 71 anni, quando, viene meno la soglia minima di 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale previsto dalla normativa vigente.
Anche in presenza di 20 anni di contributi (anzianità contributiva minima), per non ha alle spalle una carriera lavorativa continua e soprattutto degnamente retribuita, la prospettiva di dover attendere troppo tempo per ottenere la pensione si fa reale.
Se non si interviene, quindi, con riforme mirate, lo Stato dovrà sempre più assistere in futuro i lavoratori. La soluzione, come dice Tridico, è aumentare i salari e stabilizzare i rapporti di lavoro che industrie e aziende finora hanno voluto precari a ogni costo.