Capitalismo di stato con la scusa della transizione energetica, il libero mercato è morto

E' la fine conclamata del libero mercato con la transizione energetica. I governi hanno la scusa per imporre un capitalismo di stato.
1 anno fa
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Capitalismo di stato con la scusa della transizione energetica

Ci vuole davvero molta fantasia per credere che stiamo vivendo ancora sotto un sistema economico che possa definirsi capitalismo. Già da quindici anni la narrazione sul libero mercato risultava scarsamente credibile. I governi si erano precipitati al capezzale delle banche, salvandole con migliaia di miliardi di dollari dei contribuenti. E mentre questi spesso stringevano la cinghia tra aumenti delle tasse e tagli ai servizi pubblici, le banche centrali inondavano i mercati finanziari di liquidità a colpi di acquisti di bond e tassi azzerati.

L’opera è stata compiuta con la scusa della transizione energetica. Se ne parlava da anni e la guerra tra Russia e Ucraina è stata un pretesto perfetto per imporre all’intero Occidente il dirigismo economico ancora osteggiato fino alla pandemia.

Transizione energetica dà colpo di grazia a libero mercato

Non occorre essere né complottisti, né eccessivamente sospettosi per capire che siamo dinnanzi ad un capitalismo di stato. Non passa giorno che un governo non annunci nuovi aiuti di stato a favore di questa o quella impresa, questo o quel comparto produttivo. Con la scusa che bisogna accorciare le catene del valore, i governi stanno facendo a gara tra di loro per rimpatriare le produzioni strategiche. In pochi giorni, il colosso americano di semiconduttori Intel si è impegnata ad investire 58 miliardi di dollari tra Germania (30), Israele (25) e Polonia (3).

Ovviamente, riceverà in cambio sovvenzioni generosissime da parte dei tre governi. La sola Berlino le destinerà 9,9 miliardi, un terzo degli investimenti promessi. Avete chiaro come funzionerà il “nuovo” capitalismo di stato? I contribuenti pagano le aziende per far sì che scelgono il loro paese per investire e produrre. I profitti resteranno evidentemente privati. Nessuno garantirà, poi, che una volta esauritisi gli effetti degli aiuti di stato non s’inneschi una fuga verso nuovi sovvenzionatori. In sostanza, quello che noi da decenni addebitiamo alla ex Fiat è diventato un modello globale di fare impresa.

Le multinazionali spostano gli stabilimenti laddove ottengono maggiori contributi pubblici, così da ammortizzare i costi di avviamento.

Il capitalismo di stato è la soluzione sbagliata ad un problema vero: la perdita di manifattura dell’Occidente. Questa ha coinciso con lo sviluppo della globalizzazione. Economie con costi di produzione più bassi e tassazione più leggera hanno attirato investimenti e strappato crescenti quote di produzione alle economie ricche. Il lavoro si è spostato dall’Occidente in Asia. Anziché ragionare su come rimuovere i fattori di debolezza (alte tasse, burocrazia soffocante e iper-regolamentazione), a partire dagli Stati Uniti i governi ritengono di poter vincere la sfida anti-cinese a colpi di sussidi pubblici.

Grande reset a colpi di sussidi pubblici

Una soluzione che non solo la dice lunga sull’idea di capitalismo che hanno in mente, ma che sta scatenando una “guerra” interna allo stesso Occidente. Gli stati più indebitati come l’Italia dispongono di scarsi margini di bilancio per sovvenzionare le imprese. Al contrario, Germania e Stati Uniti possono permettersi di attirare capitali. La prima grazie a conti pubblici ordinati, i secondi alla loro posizione di dominio sui mercati finanziari. La transizione energetica è stata quel “grande reset” atteso da tempo per rimettere le cose a posto. La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta fino a pochi anni fa è morta. Lo stesso dicasi per il libero mercato.

Gli effetti di questo capitalismo di stato ambito da Washington e Bruxelles si vedono già. E sono tutti in negativo. L’inflazione alle stelle di questa fase è sintomatica di un mercato che non funziona. Squilibri monetari e fiscali sono all’origine del boom dei prezzi al consumo. Le forze della domanda e dell’offerta non sono messe nelle condizioni di agire con efficienza. Il “reshoring” non farà che accentuare questo problema.

Avremo più imprese in loco, ma i costi di produzione saliranno, riflettendosi sul paniere. E poiché le abbiamo attirato a colpi di aiuti di stato in deficit, i tassi di mercato resteranno alti a lungo. C’è il rischio che questa corsa al rimpatrio di pezzi di manifattura produca il più classico “effetto spiazzamento”: più debito pubblico, tassi più alti, ovvero minori investimenti da parte delle (altre) imprese.

Capitalismo di stato a favore di pochi, grandi colossi

Se fossimo onesti, ammetteremmo che la Cina stia vincendo la sfida della globalizzazione, non fosse altro che per il fatto di essere riuscita ad imporre il suo modello alle altre economie mondiali. Il libero mercato sta lasciando ogni giorno di più il posto al dirigismo economico. Ormai i governi decidono su cosa le imprese debbano investire e in quali tempi. Lo fanno a colpi di incentivi e divieti veri e propri. In nome della transizione energetica le auto dovranno essere solo elettriche dal 2035 nell’Unione Europea. Già dall’anno prossimo in Germania non si potranno installare caldaie a gas nelle abitazioni. Le banche centrali stanno travalicando apertamente il loro mandato, arrivando a scegliere quali asset acquistare sui mercati sulla base delle emissioni di CO2 delle imprese.

Chi non rispetta i canoni di produzione fissati dai governi, finisce per soccombere. Andrà incontro a crescenti costi di ri-finanziamento e a veri divieti produttivi, mentre i concorrenti potranno usufruire degli aiuti di stato elargiti a piene mani e spesso con criteri tutt’altro che trasparenti. E’ in atto un immenso processo di redistribuzione della ricchezza in favore di chi si assoggetta alle regole del nuovo capitalismo di stato. A pagare il conto sono contribuenti, lavoratori, consumatori, risparmiatori e imprese senza santi in paradiso.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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