Prima fanno le leggi e poi le dichiarano anticostituzionali. Ma non subito, intanto qualcuno ci guadagna e altri ci perdono. Siamo in Italia e a pagare è sempre pantalone. Così accade per il trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, in breve chiamato TFS. La cui liquidazione ritardata e dilazionata della buonuscita è sempre stata oggetto di aspre critiche e dibattiti fra lavoratori.
Ci sono però voluti quasi 10 anni per arrivare a una sentenza da parte della Corte Costituzionale che dichiarasse l’incompatibilità del provvedimento legislativo con l’art.
TFR e TFS: lavoratori di serie A e di serie B
Un vero e proprio sgambetto ai danni degli statali. Anche perché da lì fino ai giorni nostri si è creato un netto divario di trattamento fra lavoratori privati e pubblici, fra TFR e TFS. Coi primi che potevano godere della buonuscita maturato subito dopo il termine del rapporto di lavoro e i secondi che, invece, avrebbero dovuto aspettare come minimo 12 mesi.
Non solo. Secondo quando disposto dalla normativa, il TFS è pagato in unica soluzione solo fino a 50.000 euro lordi. Qualora la somma ecceda tale soglia, l’amministrazione di appartenenza deve liquidare il trattamento di fine servizio in due o più rate annuali.
Così, ad esempio, se il TFS maturato è pari a 130.000 euro, la prima rata da 50.000 euro è corrisposta secondo i termini di legge (12-24 mesi). Mentre la seconda rata, sempre di pari importo, a distanza di ulteriori 12 mesi e la terza e ultima rata da 30.000 euro a distanza di altri 12 mesi.
Un vero e proprio scippo che ha costretto i lavoratori a rivolgersi alle banche convenzionate per ottenere relativi prestiti a tassi agevolati, ma non troppo.
10 anni di ingiustizie
Per quasi 10 anni, quindi, i lavoratori del pubblico impiego che sono andati in pensione hanno contribuito a sanare i conti dello Stato e a ingrassare avidi banchieri. Adesso la Corte Costituzionale ha finalmente posto la parola fine all’ingiustizia del TFS ritardato (sentenza n. 130/2023). Ma intento chi ha avuto ha avuto chi ha dato ha dato. I giudici hanno sottolineato che
“tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione”.
Per la Corte Costituzionale, inoltre, non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, tenuto anche conto che la stessa aveva già rivolto al legislatore, con la sentenza n.159 del 2019, un monito con il quale si segnalava la problematicità.
Insomma, sono passati 10 anni per arrivare a una decisione e probabilmente passerà ancora del tempo prima che il Parlamento faccia una legge che riporti le cose allo status quo. Ma tant’è… giustizia è fatta.
Pensionati pronti a fare ricorso
Che succederà ora? Probabile che scatterà una valanga di ricorsi da parte dei pensionati che hanno dovuto attendere anni prima di vedere la liquidazione. Ma soprattutto ci sono quelli che ancora la stanno aspettando e coloro che nel frattempo sono magari deceduti senza nemmeno vederla arrivare sul conto.
I sindacati si sono già detti pronti a gestire i ricorsi con migliaia di cause. Bisognerà essere iscritti naturalmente o corrispondere una “commissione” per la gestione delle pratiche. E così da questa rogna ci guadagneranno anche loro. Prima, però, bisognerà attendere il nuovo provvedimento legislativo che cancelli definitivamente gli effetti di quella strampalata legge del 2014. Quanto tempo passerà ancora?