Sembrava uscito di scena, ma il suo intervento a The Economist di questa settimana sembra un remake di quello di tre anni fa al Meeting di Rimini, quando parlò di “debito buono”. L’allora ex governatore della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi, sarebbe diventato presidente del Consiglio meno di sei mesi più tardi. Stavolta, il dibattito sale di livello. Al quotidiano economico britannico, l’ex premier parla di Patto di stabilità per avvertire l’Unione Europea che la scelta peggiore che potrebbe compiere, sarebbe di riattivarlo così come era prima del Covid.
Il pensiero di Draghi è in parte noto da anni sul tema. Tuttavia, la bocciatura del ritorno al vecchio Patto di stabilità può considerarsi una novità. Non è stato un assist a favore del governo Meloni. Il ragionamento è stato più complessivo. L’uomo che salvò l’euro con il “whatever it takes“ ritiene che l’Europa avrà bisogno nei prossimi anni di investire contro i cambiamenti climatici, a sostegno della sicurezza e per rimpatriare quote di produzione industriale nel processo di “reshoring” appena iniziato dopo decenni di delocalizzazioni. Insomma, serviranno soldi, tanti soldi.
Attacco alla Germania sull’austerità fiscale
Secondo Draghi, tornare all’austerità fiscale pre-Covid impedirebbe all’Europa di centrare obiettivi vitali per la sua sopravvivenza, non solo strettamente economica. Una vera sberla ai fautori del vecchio Patto di stabilità, che si annidano tra le capitali del Nord Europa. E’ evidente che l’attacco sia stato principalmente rivolto alla Germania, accusata velatamente di essere priva di lungimiranza. E i tedeschi avranno più di un problema a difendere strenuamente le vecchie regole di bilancio comunitarie. Gli stessi loro giudici contabili accusano il governo Scholz di avere truccato il bilancio federale, spostando importanti voci di spesa in “veicoli speciali” (“Sondervermögen”).
La Germania si è vincolata a spendere nei prossimi anni 100 miliardi di euro in più per la difesa e oltre 200 miliardi contro i cambiamenti climatici. Solo che pensava di non sottoporre tali voci al deficit ufficiale, esattamente quanto chiede il governo italiano, ovvero che gli investimenti siano scorporati dal computo del disavanzo. C’è da chiedersi quale sia stato il vero obiettivo di Draghi, se il suo voleva essere solamente uno spunto utile al dibattito o qualcosa di più. Nel secondo caso, la mente corre alle elezioni europee nel giugno prossimo. Gli equilibri nell’Europarlamento potrebbero uscirne scombussolati al punto da rendere non scontata la rielezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione.
Draghi successore di von der Leyen alla Commissione?
Che Draghi punti a Bruxelles non è un mistero. Avrebbe voluto traslocarvisi già dopo aver completato il suo mandato di governatore BCE. La congiuntura politico-elettorale ha reso tale sogno impossibile. Il passaggio a Palazzo Chigi era inteso quale trampolino di lancio proprio per succedere a von der Leyen. Egli è consapevole che non potrà restare troppo nell’ombra da qui ad un anno, altrimenti rischia di finire nel dimenticatoio. I tedeschi non lo hanno mai amato per via della sua politica monetaria non ortodossa, tra l’altro oggi sotto accusa per gli effetti nefasti che avrebbe avuto nel far surriscaldare l’inflazione. Tuttavia, lo hanno sempre rispettato per via della sua serietà ed estrema competenza.
Draghi può diventare la carta spendibile da giocarsi nel caso in cui le spaccature tra partiti e governi impedissero la convergenza su un nome. Per la premier Giorgia Meloni sarebbe una via di uscita onorevole e persino una botta di fortuna: indipendentemente da eventuali alleati scomodi (vedi i socialisti), potrebbe rivendicare l’appoggio al suo predecessore in qualità di italiano e difensore di una visione dell’Europa a noi più congeniale.