Ecco il vero motivo per cui le banche centrali vogliono tenere i tassi di interesse alti a lungo

Non è solo e tanto la lotta all'inflazione che spinge da mesi le banche centrali a voler tenere i tassi di interesse alti per un periodo prolungato.
1 anno fa
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Banche centrali e tassi di interesse
Banche centrali e tassi di interesse © Licenza Creative Commons

Rendimenti in calo da diverse sedute, cioè da quando le principali banche centrali hanno annunciato una pausa sull’aumento dei tassi di interesse. Dalla Banca Centrale Europea alla Federal Reserve, passando per Banca d’Inghilterra e Banca Nazionale Svizzera e altri istituti, i governatori hanno segnalato che la stretta monetaria potrebbe essere, se non cessata del tutto, certamente ormai prossima alla fine. La lotta all’inflazione è stato un assillo dopo che per anni era diventata un’ossessione il rischio opposto di deflazione.

Aumento tassi di interesse dopo i rendimenti negativi

Da mesi, tuttavia, le banche centrali vanno ripetendo che i tassi di interesse resteranno probabilmente elevati al lungo. “Non parlate di picco, bensì di plateau”, ha fatto osservare Francoforte sul punto. Le proiezioni ad oggi dicono che nell’Eurozona l’inflazione tornerà al target del 2% entro il 2025, vale a dire da qui a due anni. Ma davvero pensate che i governatori stiano perdendo le staffe per una crescita attesa dei prezzi di poco superiore ai rispettivi target e dopo che questi sono stati disattesi al ribasso per un lungo periodo fino alla guerra russo-ucraina?

La verità è che la lotta all’inflazione c’entra ormai ben poco con l’aumento dei tassi di interesse. Le banche centrali hanno espanso i loro poteri d’intervento in economia subito dopo la crisi finanziaria del 2008. Hanno azzerato il costo del denaro per lunghissimi anni e comprato bond e altri asset al fine di iniettare liquidità sui mercati. Indebitarsi non era mai stato così conveniente nella storia dell’umanità. Ha attecchito, specie in Europa, il fenomeno dei rendimenti negativi. Prendere a prestito denaro era diventato persino vantaggioso, dato che a rimetterci sarebbe stato il creditore.

I governi hanno mollato la prudenza fiscale

Gli effetti collaterali della ZIRP e NIRP (politica dei tassi a zero o negativi) non hanno tardato a manifestarsi.

Dai governi alle imprese e, in qualche caso, alle famiglie, il debito si è impennato. Gli stati hanno abbandonato la prudenza fiscale per abbracciare i desideri di tutti gli elettori. Negli Stati Uniti, il debito è passato dai poco più di 13.000 miliardi del 2007 agli oltre 33.000 miliardi di quest’anno. In termini assoluti, è cresciuto del 150%. Solo per darvi un’idea delle dimensioni del problema, dovete pensare che il deficit di bilancio è stato di 3.100 miliardi nel 2020, di 2.800 nel 2021 e quest’anno ancora chiuderà a 2.000 miliardi.

L’Ufficio Bilancio del Congresso stima che nei prossimi anni il disavanzo fiscale si aggirerà sui 3.000 miliardi e che entro 30 anni il rapporto debito/PIL salirà sopra il 180% da quasi il 130% del 2022. Era al 65% nel 2007. In Europa è accaduto qualcosa di simile, pur in tono minore. E paradossalmente non è stato un paese come l’Italia ad avere mollato la prudenza fiscale, bensì altri come la Francia. Le banche centrali si sono rese conto che un lungo decennio di tassi di interesse a zero o persino negativi hanno creato non solo le condizioni per una gigantesca bolla finanziaria, già esplosa nel comparto obbligazionario, ma alimentato anche l’irresponsabilità fiscale tra i governi.

Banche centrali accumulano munizioni anti-crisi

Serve far sentire loro un po’ di dolore prima di tornare a tagliare i tassi. L’idea sarebbe di indurli con le cattive a risanare i rispettivi bilanci. Dovrà esserci con ogni probabilità un mix tra aumento delle entrate e riduzione della spesa pubblica. In sostanza, più tasse e meno servizi, il contrario di quanto propagandato negli anni passati praticamente da tutti i partiti. Ma il cambio di rotta non è privo anch’esso di conseguenze. Ora che si sono accumulate montagne di debiti, ripagarli a costi molto più alti significa impattare negativamente sui conti pubblici. C’è il rischio che il mercato perda fiducia sulla loro sostenibilità.

Si parla a tale proposito sempre dell’Italia, mentre il problema è generalizzato, a partire dagli stessi Stati Uniti.

Politica monetaria e politica fiscale ormai s’intrecciano. I loro confini non sono più netti come quindici anni fa. Le banche centrali non credono veramente che potranno tenere i tassi di interesse alti per anni, semmai per mesi. Stanno cercando del resto di accumulare munizioni a sufficienza da utilizzare all’arrivo della prossima crisi economica. Dovranno ritrovarsi qualcosa da tagliare e bilanci un po’ più magri da rimpolpare a colpi di acquisti di titoli. Tutti sanno che prima o poi accadrà di nuovo. Far tornare gli stati alla prudenza fiscale dopo averne assecondato ogni lassismo per anni non sarà facile, forse è diventato impossibile.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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