Tutti contenti di avere evitato il declassamento del rating per il nostro debito pubblico al livello “junk” o “spazzatura”. Moody’s non ha usato la scure, anzi ci ha persino promossi, migliorando le previsioni sui conti dello stato. Ma possiamo essere contenti di uno studente, che alla fine dell’anno si salva per il rotto della cuffia, riuscendo ad evitare la bocciatura per una sola interrogazione andata bene? Anche perché, mentre l’Italia evitava l’umiliazione storica di essere considerata un debitore inaffidabile, il Portogallo tornava in serie A.
Corsa del debito con economia italiana ferma
Perché il debito pubblico italiano resta così mal visto sui mercati e tra chi lo deve giudicare per mestiere? Qualche dato ci aiuterà a capire meglio. Il 2007 fu l’anno che precedette la famosa Grande Crisi Finanziaria, che travolse l’economia mondiale. Da allora, il nostro PIL è cresciuto di 332 miliardi di euro scarsi. In termini reali, nel 2022 restavamo indietro a quindici anni prima. Dunque, l’economia italiana non è cresciuta. Nello stesso periodo, il debito pubblico è esploso di 1.080 miliardi, cioè di 3,3 volte l’aumento del PIL.
Se restringiamo l’orizzonte temporale al periodo 2019-2022, cioè se facciamo riferimento all’anno prima della pandemia, scopriamo che il PIL italiano è cresciuto di 150 miliardi. Nel frattempo, il debito pubblico ha messo a segno un rialzo di 347 miliardi, vale a dire di 2,4 volte superiore. Il ritmo di crescita del debito sta rallentando, ma resta il fatto che continuiamo a produrre più deficit che ricchezza.
Il successo del Portogallo
Vediamo cos’è accaduto nello stesso periodo in Portogallo. Il PIL lusitano è cresciuto di 67 miliardi tra il 2007 e il 2022, il debito di 145 miliardi, cioè di 2,16 volte. Anche in questo caso c’è stata maggiore produzione di deficit che di ricchezza, ma in misura più contenuta.
Rating debito bassi e spesa interessi alta
Finché non riusciremo anche noi a dimostrare questo, i rating sul debito pubblico italiano resteranno bassi. Ed è normale che lo siano. Un debito è sostenibile se tende a restare contenuto rispetto al PIL. In un periodo di tassi a zero, teoricamente il rapporto tra i due indicatori diventa meno importante, perché nei fatti rifinanziare lo stock in scadenza costa poco o nulla. Quando i tassi tornano a salire e si normalizzano, come sta accadendo dallo scorso anno, sono guai. Emettere debito costa e quel costo tende ad incidere in misura sempre maggiore rispetto alle entrate, qualora il rapporto debito/PIL fosse elevato e persino in crescita.
Nei primi anni Novanta, in Italia un quarto delle entrate arrivò ad essere destinato al pagamento degli interessi sul debito. Per fortuna, attualmente i dati del governo stimano che l’anno prossimo la percentuale resterebbe sotto il 9%. Più alta la quota e maggiori le risorse sottratte ad altre voci di spesa più produttive e la pressione fiscale sui contribuenti, cioè la sottrazione di ricchezza al settore privato. A sua volta, ciò indebolisce la crescita economica e rende ancora meno sostenibile la traiettoria del debito. Come un cane che si morde la coda, si finisce per pagare sempre più interessi su uno stock che non smette di crescere in rapporto al PIL. Fino all’eventuale triste epilogo.