Il taglio della rivalutazione delle pensioni è stato al centro del dibattito pubblico già verso la fine dello scorso anno, quando il governo Meloni esordì con una manovra impostata sui risparmi per gli assegni sopra quattro volte il trattamento minimo. Il décalage ha colpito pesantemente gli assegni più alti e l’anno prossimo andrà peggio per coloro che percepiscono un assegno sopra le dieci volte il minimo: la rivalutazione sarà tagliata dal 32% al 22% del tasso d’inflazione.
Rivalutazione pensioni, verso cambio metodo di calcolo
Malgrado le polemiche, il provvedimento si è reso necessario per calmierare l’aumento della spesa previdenziale, che risulta già esploso a seguito del boom dell’inflazione.
Sempre il governo Meloni intende riformare il metodo di rivalutazione delle pensioni. Anziché agganciare gli assegni al tasso d’inflazione, punta ad indicizzarli al deflatore del PIL. Il termine apparirà astruso ai più. Volendo sintetizzare, si tratta dell’inflazione del PIL. Partiamo dal concetto di inflazione: è l’aumento generalizzato dei prezzi al consumo. E il PIL? Acronimo per Prodotto interno lordo, misura la produzione di merci e servizi. Moltiplicato per i rispettivi prezzi, esita il cosiddetto PIL nominale. Il PIL nominale non equivale alla crescita reale dell’economia, in quanto ad essa va sottratta la crescita dei prezzi prodotti. Quest’ultima è il deflatore.
Deflatore PIL e inflazione, differenze
Tendenzialmente, inflazione e deflatore tendono a camminare di pari passo, sebbene raramente coincidano perfettamente. La divergenza più clamorosa si ebbe l’anno scorso. Il deflatore del PIL fu del 3,1%, mentre l’inflazione schizzò all’8,1%. Come mai tanta differenza? Il deflatore esclude i prezzi dei beni importati.
Se la rivalutazione delle pensioni fosse avvenuta l’anno scorso in base al deflatore del PIL, i pensionati avrebbero perso un bel po’ di potere di acquisto. Un assegno mensile di 1.000 euro, anziché salire a 1.081 euro, si sarebbe fermato a 1.031 euro. Sarebbero stati 50 euro in meno per tredici mensilità, cioè 650 euro in meno in un anno. Non è un caso che la Cgil abbia lanciato l’allarme, stimando che l’eventuale modifica del metodo di calcolo farebbe perdere in media 78 euro al mese su una pensione di 1.786 euro. La stangata arriverebbe a 18-35.000 euro complessivi per tutta la durata del pensionamento.
Trend deflatore con inflazione a doppia cifra
E’ davvero così? Per cercare di rispondere a questa domanda, abbiamo allungato lo sguardo all’ultimo decennio 2013-2022. In questo periodo, l’inflazione italiana cumulata è stata del 18,9% e il deflatore del PIL del 17,3%. La rivalutazione delle pensioni agganciata al secondo avrebbe fatto perdere circa il 2,5% in tutto. Grosso modo, i due valori sono andati a braccetto. Abbiamo voluto indagare, poi, riguardo a un altro decennio, quello in cui l’inflazione italiana salì a due cifre. Parliamo del periodo che va dal 1974 al 1983. Anche in quel caso, gli shock petroliferi fecero esplodere i prezzi al consumo.
Ebbene, allora il tasso medio annuo d’inflazione fu del 17%, mentre il deflatore del PIL risultò del 18,9%. A conti fatti, la rivalutazione delle pensioni sarebbe risultata più benefica per i titolari degli assegni con il metodo di calcolo a cui guarda il governo. Com’è possibile, visto ciò che abbiamo sopra accennato? Il fatto è che il boom dei prezzi dei beni importati, trascorso un certo periodo, tende a contagiare l’intero paniere, facendo salire l’inflazione anche di beni e servizi prodotti sul territorio nazionale.
Taglio rivalutazione pensioni o minore volatilità?
A priori, non è possibile affermare se la rivalutazione delle pensioni subirà una decurtazione o meno cambiando metodo di calcolo. Alla lunga, eventuali periodi favorevoli ai pensionati potrebbero compensarsi con periodi svantaggiosi. A cosa si deve la modifica ipotizzata? Ad evitare che shock esterni, come quello che ha colpito l’economia europea ormai quasi due anni fa, possano impattare così pesantemente e nell’immediato i conti previdenziali. Si tratta non di truffare i pensionati, bensì di mettere insieme la sacrosanta esigenza di tutela del potere di acquisto con quella dei conti dello stato.
Ad esempio, già quest’anno, a fronte di un’inflazione media attesa al 5,6%, il deflatore del PIL salirebbe al 4,5%. Le distanze tra i due valori scenderebbero intorno all’1% dal 5% di un anno fa. L’anno prossimo, al contrario il deflatore del PIL salirebbe più dell’inflazione (2,9% contro 2,4%) e così anche nel 2025 (2,1% contro 2%), coincidendo perfettamente con essa nel 2026 al 2%. Le stesse previsioni del governo a medio-lungo termine, quindi, smentirebbero l’assunto che il deflatore deprimerebbe la rivalutazione delle pensioni in modo permanente. Probabile, invece, che stabilizzerebbero il trend della spesa previdenziale, al netto delle dinamiche socio-demografiche.