Ufficialmente, l’amministrazione Biden nega e l’Unione Europea preferisce parlare di “de-risking”. Tuttavia, il dubbio che l’Occidente stia andando verso il “decoupling” con la Cina diventa sempre meno infondato. Il termine è utilizzato per descrivere quella situazione per la quale i legami tra due economie si allentano finanche a recidersi del tutto. La pandemia ha segnato uno spartiacque nel processo di globalizzazione. Le catene di produzione lunghe, alle quali prima s’inneggiava nel nome dell’efficienza, si sono rivelate politicamente ed economicamente rischiose nei casi di imprevisti.
Decoupling reazione a crisi globalizzazione
Il mondo si è riscoperto ancora meno sicuro con l’occupazione russa dell’Ucraina. Merci e capitali circolavano e circolano tutt’oggi da una parte all’altra del pianeta, quasi ignorando le tensioni sempre più numerose e gravi tra governi. Il principio di neutralità per il possesso delle materie prime è stato palesemente violato. Si pensava o si fingeva di credere fino a qualche tempo fa che il libero commercio rendesse quasi del tutto irrilevante possedere o meno i fattori principali per la produzione di merci. Ciò che non hai, lo compri con i soldi che ti dà chi acquista a sua volta da te.
Ma l’accaparramento dei chip in Cina durante la pandemia ha svelato quanto sia impossibile implementare la transizione energetica senza preoccuparsi di avere libero accesso a materie come il litio. E nei giorni scorsi è arrivato un dato a rafforzare l’idea che il decoupling forse sia già iniziato. La Cina ha registrato per la prima volta dal 2016 un calo delle esportazioni: -4,6% sul 2022 a 3.380 miliardi di dollari. Certo, il confronto era con un anno di boom di vendite all’estero, anche grazie all’e-commerce. Altri dati, però, aggiungono particolari interessanti.
Più scambi tra Cina e Russia, meno con Stati Uniti
L’anno scorso, le relazioni commerciali con la Russia sono cresciute da 190 a 240 miliardi di dollari.
Considerate che nel 2023, prendendo in considerazione tutto il resto del mondo, la Cina ha segnato nei primi undici mesi un calo del deficit di 103 miliardi. Praticamente, la quasi totalità del miglioramento dei saldi si deve proprio al riequilibrio dei rapporti con la Cina. L’import/export con essa pesava il 2,4% del PIL USA, in calo dal 2,4% del 2022. E scende anche il peso del commercio con l’estero sul PIL cinese dal 34,8% al 33,6%, stando alle nostre stime.
In calo anche investimenti cinesi negli USA
Tutta questa sfilza di numeri significa che la Cina sta allentando i suoi rapporti con gli Stati Uniti, intensificandoli con la vicina Russia. Troppo presto per dire se si tratti effettivamente di decoupling o di semplice riposizionamento sui mercati. Di certo c’è che anche sul piano finanziario qualcosa si muove in direzione contraria al passato. Nei dodici mesi all’ottobre scorso, i titoli del debito pubblico americano in mano alla Cina risultavano scesi di oltre 108 miliardi di dollari. In rapporto alle detenzioni totali all’estero, il peso si è ridotto dal 12,3% al 10,2%. E parliamo di un solo anno. Rispetto ai massimi di un decennio fa, stiamo andando verso il dimezzamento.
Gli stessi investimenti diretti della Cina negli Stati Uniti nel 2022 erano diminuiti 7,2% a 28,7 miliardi e l’anno scorso le cose non sarebbero migliorate affatto.
Decoupling limitato da reciproci vantaggi
Questo implica anche la necessità di tenersi strette le economie ricche di materie prime come l’Arabia Saudita con il petrolio, al fine di accrescere la propria competitività e riuscire in qualche modo a superare la possibile tempesta tenendo bassi i prezzi e consentendo ad altri paesi di importare i suoi prodotti. L’unica “merce” che manca ai cosiddetti Brics sono i capitali. Per questo il decoupling non sta avvenendo in maniera traumatica. All’Occidente mancano le materie prime, ai suoi “nemici” i mezzi finanziari. Prima di dirsi eventualmente addio, ognuno vuole essere sicuro di poter reggere alla separazione.