E’ notizia di fine gennaio che la borsa indiana ha superato quella di Hong Kong per capitalizzazione, diventando la quarta più grande al mondo. Per il momento, invece, la superiorità della borsa cinese, intesa come somma tra mercato di Shenzen e Shanghai, non sarebbe in discussione. Con circa 10.700 miliardi di dollari, le società in essa quotate valgono circa due volte e mezza le indiane. Tuttavia, il trend negli ultimi anni non sembra favorevole a Pechino. C’è una buona notizia di questi giorni: a febbraio gli investitori stranieri sono tornati a comprare 60,7 miliardi di yuan netti, circa 8,4 miliardi di dollari.
Borsa cinese in perdita negli ultimi 5 anni
La borsa cinese non risulta più appetibile come fino a pochissimi anni addietro. Nell’ultimo lustro, l’indice CSI 300 segna un calo del 3%, che si confronta con il +87% dell’S&P 500 e il +34,5% dell’Eurostoxx 600. Mettete anche che nello stesso arco di tempo lo yuan ha perso il 7% contro il dollaro, aggiunteci pure l’inflazione e capirete perché per un investitore straniero, ancor più che domestico, le azioni cinesi non sembrino più un grande affare.
Pil cinese in rallentamento
Le cose sembrano andare meglio se si guarda ad un periodo più lungo: +63% il guadagno in yuan in 10 anni, una media lorda del 5% all’anno, ma che scende al 4% con l’effetto cambio. Nello stesso periodo, tuttavia, le azioni indiane hanno segnato un boom del 250%. E va bene che la rupia ha perso contro il dollaro più di un quarto del suo valore, ma l’investimento avrebbe ugualmente offerto un rendimento molto positivo.
Rispetto ai massimi di tre anni fa, la borsa cinese mostra una capitalizzazione pari al 25% più bassa. Cosa sta succedendo? Il Pil cinese sta rallentando visibilmente il passo.
Tensioni con Xi Jinping
A voler essere sinceri, la crisi della borsa cinese non è questione di oggi. Dopo che nell’estate del 2015 toccò i massimi, le ci vollero circa cinque anni e mezzo per tornare a quei livelli. Nell’agosto di quell’anno, infatti, scoppiò la bolla e gli investitori stranieri si accorsero quanto fosse rischioso investire sul mercato azionario del Dragone. Molti si erano illusi che la Cina fosse diventata un libero mercato, almeno sul piano finanziario. Si accorsero a loro spese che le autorità avrebbero imposto restrizioni ai movimenti dei capitali, tra cui il divieto di vendere titoli oltre certe somme.
La cautela per la borsa cinese è andata di pari passo alle tensioni geopolitiche e commerciali. Il presidente Xi Jinping, al terzo mandato, ha adottato sin dall’inizio un’agenda nazionalista. Le frizioni con gli Stati Uniti di Barack Obama, Donald Trump e Joe Biden sono state ad oggi all’ordine del giorno. Tra “guerre” commerciali, Taiwan e il rischio di un confronto bellico sempre più diretto, nessuno può più azzardare che Pechino e Washington tra qualche anno saranno a capo di potenze “amiche”. Il resto lo sta facendo il crac del mercato immobiliare, conseguenza di una bolla alimentata dal credito a fiumi erogato alle società di costruzioni dopo il 2008.
Fuga dalla borsa cinese verso l’India
La borsa indiana sta attirando i capitali in fuga dalla borsa cinese. Più in generale, l’India sta diventando terra di “reshoring” di prossimità per molte multinazionali spaventate dai futuri scenari e in cerca di mercati di produzione a basso costo alternativi.
E, soprattutto, l’India vanta un trend socio-demografico favorevole allo sviluppo, avendo una popolazione ancora molto giovane, mentre la Cina è diventata vecchia ancor prima di diventare ricca. La borsa cinese sembra annotare e invia un segnale di estrema cautela al resto del mondo. La Banca Popolare Cinese ha, intanto, tagliato il Prime Loan Rate a 1 anno al 3,45%, ai minimi di sempre. Sta cercando di rianimare così investimenti ed economia in affanno, ma rischia di colpire ulteriormente il cambio senza riuscire a spostare le direttrici della crescita dalle esportazioni ai consumi interni.