Perché le borse mondiali non festeggiano i dati sbalorditivi sul lavoro negli Stati Uniti

Le borse iniziano ad avere paura della straordinaria forza con cui gli Stati Uniti continuano a crescere. Anziché festeggiare, il mercato vende.
9 mesi fa
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Borse giù sui dati del lavoro Usa
Borse giù sui dati del lavoro Usa © Licenza Creative Commons

Cali pesanti per le borse che si trovavano aperte nel pomeriggio di venerdì 5 aprile, quando sono usciti i dati sul lavoro negli Stati Uniti. Ragionando come l’uomo della strada, ci sembrerà un paradosso. Perché i numeri non sono stati negativi, anzi fin troppo positivi e ben sopra le migliori attese. A marzo sono stati creati altri 303 mila posti di lavoro, mai così tanti dal gennaio dello scorso anno. E il tasso di disoccupazione è sceso dal 3,9% al 3,8%. Sempre a marzo, le retribuzioni orarie risultano cresciute dello 0,35% mensile (il doppio di febbraio) e del 4,1% annuale (da +4,3%).

Borse non festeggiano i dati sul lavoro USA

Nell’insieme i dati forniscono una lettura molto positiva della prima economia mondiale. E le borse non festeggiano, contrariamente a quanto immagineremmo. Finché Pil e occupazione negli Stati Uniti andranno bene, non esiste motivo per cui la Federal Reserve debba iniziare a tagliare i tassi di interesse con un’inflazione ancora al 3,2% a febbraio. Ricordiamoci che essa ha un obiettivo del 2% nel medio termine, compatibilmente con la piena occupazione.

Il taglio dei tassi generalmente arriva quando l’economia inizia ad entrare in sofferenza. Non siamo ancora in quella fase. Non negli Stati Uniti. E questo significa che il governatore Jerome Powell potrà prendersi ancora un po’ di tempo prima di agire. Di conseguenza, le probabilità che agisca già a giugno si stanno abbassando. Erano sprofondate al 55% subito dopo l’uscita dei dati. Ma questo significa anche che il denaro non sarà meno caro nei prossimi mesi. E se così fosse, le borse vedrebbero affluire minori capitali del previsto. Tassi alti favoriscono, invece, il comparto obbligazionario per il tramite di rendimenti maggiori lungo la curva, specie sul tratto a breve termine.

Verso un rinvio del taglio dei tassi BCE?

E cosa c’entra l’Area Euro con la Fed? La Banca Centrale Europea (BCE) sostiene che la tempistica sui tassi la decide in autonomia, non guardando a cosa faccia l’istituto di Atlanta.

Questa è una mezza verità. Nel senso che, effettivamente, Francoforte assume le sue decisioni in base all’andamento dell’inflazione e delle aspettative del mercato su di essa. Tuttavia, questi s’intrecciano con quanto avviene al di là dell’Atlantico. Se la BCE tagliasse prima della Fed i tassi, i capitali si sposterebbero negli Stati Uniti in cerca di rendimenti più alti. Il cambio euro-dollaro s’indebolirebbe e il costo delle importazioni salirebbe. Ciò avrebbe un impatto al rialzo sulla nostra inflazione.

Le borse lo sanno e, quindi, guardano alla Fed per capire cosa accadrà a breve anche nel resto del pianeta. Perché è implicito che, come sempre in passato, sia essa a battere i tempi della politica monetaria. Checché ne dicano Christine Lagarde e colleghi. La realtà è che nel mondo comandano i pesci grossi. E gli Stati Uniti sono più grossi di noi, oltretutto emettono la riserva di valuta mondiale tramite una banca centrale che funziona come tale al 100%. La BCE è una banca centrale dimezzata, essendo la risultanza di venti istituti nazionali spesso in contrasto di vedute tra loro. Tanto per dirne una, non è una prestatrice di ultima istanza.

Debito USA in crescita esponenziale

Tra le borse gira spesso il detto “good news is bad news”, cioè le belle notizie sono cattive per chi deve investire. E ciò avviene per il meccanismo di cui sopra. Agli investitori interessa accedere ai capitali a costi minimi. Le valutazioni azionarie tendono a lievitare con tassi di interesse più bassi. Resta da capire perché l’economia a stelle e strisce resti così resiliente. La verità è che viene “drogata” da dosi di spesa pubblica insostenibili. Il debito pubblico americano tende a salire di 1.000 miliardi di dollari ogni 100 giorni.

Sta esplodendo nel frattempo anche la spesa per interessi. Non interessa a nessuno dei candidati in corsa per la Casa Bianca e nel dibattito pubblico il tema è soltanto sfiorato.

Borse sempre più timorose

Gli Stati Uniti credono che basti indebitarsi in dollari per accedere a capitali illimitati. Ritengono di non dovere soggiacere alle ordinarie leggi del mercato. In parte, hanno ragione. In parte, stanno dormendo sugli allori. E allora, quel che resta dei dati super-positivi sul lavoro non è tanto la robustezza dell’economia, quanto il rischio crescente che a Washington stiano scherzando col fuoco. Le borse si chiedono cosa accadrà quando gli Stati Uniti andranno in recessione, se già oggi con una crescita del Pil ottimale spandono e spendono senza contegno. L’unica speranza per loro è che Powell si convinca a tagliare comunque i tassi presto, al solo fine di creare un ambiente ideale prima delle elezioni presidenziali. E se, tagliando, si attirasse gli strali di Donald Trump, probabile vincitore, il quale gli rimprovererebbe di dare una mano al presidente uscente?

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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