I nemici giurati dell’America crescono, si coalizzano, lanciano proclami in favore di un nuovo ordine mondiale che li veda finalmente protagonisti. Ma al dollaro non rinunciano. Da anni si parla del tentativo dei cosiddetti Brics, guidati principalmente dalla Cina, di ridurre la propria dipendenza dalla finanza imperniata sul biglietto verde. In effetti, stiamo assistendo a un allentamento progressivo degli acquisti di titoli del debito americano in favore dell’oro da parte della Banca Popolare Cinese. La corsa asiatica al metallo giallo sembra un messaggio chiaro inviato a Washington: voi avrete pure il dollaro, ma noi puntiamo su un asset storicamente più solido e non manipolabile dalle stamperie monetarie.
Fine del dollaro ancora lontana
Tuttavia, la “dedollarizzazione“ di cui si dibatte sui quotidiani mondiali è un fenomeno tutt’altro che avviato. E’ vero che gli Stati Uniti hanno un debito federale in aumento esponenziale e che alla lunga rischiano di perdere la fiducia dei mercati. Ma il Fondo Monetario Internazionale ci ricorda che ancora oggi quasi il 60% delle riserve valutarie del pianeta sono denominate in valuta americana. A lunga distanza segue l’euro con meno del 20%. E se qualcuno immagina che dietro vi siano chissà quali tentativi occulti della grande finanza per salvaguardare il dollaro, dovrebbe prestare attenzione ai numeri che vi stiamo per fornire.
Tassi di cambio crollati e inflazione alle stelle
Chi è per il momento il nemico numero uno dell’America? La Russia di Vladimir Putin, dove un dollaro viene scambiato contro quasi 87 rubli. E subito dopo l’occupazione dell’Ucraina ne arrivarono a servire fino a 135. Ma quando cadde l’Unione Sovietica nel 1991, il rapporto era ancora di 1:1. Artificiosamente manovrato da Mosca, s’intende. Da allora, la valuta russa ha perso quasi interamente il proprio valore. E bisogna aggiungere che nel frattempo l’inflazione ha divorato il potere di acquisto dei russi.
Si parla tanto di possibile secolo indiano, anziché cinese. Ebbene, anche la rupia indiana ha subito una sorte tutt’altro che benevola contro il dollaro negli ultimi decenni. Il cambio è passato da 31 a 83 in meno di 30 anni. Un tracollo del 63%. Peggio ha fatto il rand sudafricano, che dopo l’apartheid è passato da un cambio di 3,50 ad oltre 18: -80%. Il reais brasiliano, nato dalle ceneri del cruzeiro travolto dall’iperinflazione di metà anni Novanta, stava a un cambio iniziale di 1:1 contro il dollaro. Oggi, viaggia a circa 5,50: -80%.
Nemici dell’America bramano per il biglietto verde
E cosa dire della nuova lira turca, anch’essa agli inizi del Duemila a 1:1 contro il dollaro e oggi a quasi 33? In questo caso, il crollo è stato di quasi il 97%. Ci sarebbero casi ancora più drammatici nel mondo, come quello che riguarda l’Argentina. Fino al default di inizio 2002, un dollaro valeva un peso, mentre oggi viaggiamo nell’ordine dei 1.000 pesos contro 1 dollaro. Numeri che testimoniano quanto i biglietti stampati dalla Federal Reserve restino ambiti in tutto il pianeta, persino nei luoghi meno sospettabili. La Corea del Nord di Kim Jong-Un ha un apposito ufficio governativo, chiamato Bureau 39, il cui compito consiste nell’eseguire frodi informatiche al fine di mettere le mani su quantità di dollari di cui l’economia difetta a causa della sua chiusura al resto del mondo e alle sanzioni internazionali.
Dollaro questione di sopravvivenza
Nel Venezuela “chavista” non si contano gli zeri che sono stati tolti dalle banconote dei bolivares per permettere ai cittadini di fare la spesa senza portarsene dietro vagonate. Qui, come a Cuba, a salvarsi dall’iperinflazione sono quei pochi fortunati che arrivano ad accedere alla valuta americana. Il dollaro non è una scelta di cuore in gran parte del mondo, bensì una necessità.