Perdere in una sola seduta un ottavo dell’intero valore non è cosa che accade spesso. Anzi, per fortuna di chi investe molto raramente. La Borsa di Tokyo ha registrato un crollo medio per le sue azioni del 12,40%, il secondo peggiore nella storia dopo l’ottobre del 1987. E dire che il Nikkei-225 avesse da poco riacciuffato i livelli di fine anni Ottanta. L’episodio potrebbe avere innescato una crisi dei mercati, le cui conseguenze vere e proprie le vedremo solamente nelle prossime settimane.
Crisi mercati con rischio recessione Usa
Tutto è partito con il report di giugno del mercato del lavoro negli Stati Uniti. Minori posti creati e tasso di disoccupazione più alto delle previsioni. Tanto è bastato per provocare un’ondata di vendite sui mercati azionari già venerdì 2 agosto. Non a Tokyo, che per un fatto di fuso orario aveva già chiuso da un pezzo le contrattazioni. Anziché servire per stemperare le tensioni, queste si sono evidentemente accumulate nel fine settimana con i risultati che sappiamo.
Davvero possiamo immaginare che una crisi dei mercati si sia innescata da un dato in sé persino non negativo? E’ sufficiente a farci prevedere un rischio di recessione negli Stati Uniti, prima economia mondiale? Poco prima dell’uscita del report sulle “payrolls”, la notizia del giorno era stata un’altra: Warren Buffett aveva venduto tramite il suo fondo quasi il 13% delle azioni Apple in portafoglio, riducendole in valore al 40% del totale. Un segnale di sfiducia verso i principali driver per la crescita di Wall Street in questi anni.
Fine di liquidità a fiumi
La verità è che i mercati attendevano un pretesto per vendere. Non che abbiano smesso di puntare a guadagnare, semplicemente non trovano più ragioni a sufficienza per continuare ad investire. L’economia mondiale non sembra messa granché bene. Gli Stati Uniti ad oggi sono cresciuti, ma a colpi di debito pubblico.
Per un lungo decennio fino al 2022, le principali banche centrali avevano tenuto azzerati i tassi di interesse e iniettato fiumi di liquidità sui mercati con programmi noti come Quantitative Easing. La ricomparsa dell’inflazione dopo la pandemia ha costretto tutte ad uscire da quei programmi, alzando i tassi ai massimi da inizio millennio e ponendo fine agli acquisti dei bond. Risultato: costo del denaro esploso. Un bene per i risparmiatori, molto male per i debitori. E i secondi sono le imprese, le famiglie con un mutuo e gli stessi governi.
Debito troppo alto e costoso
Ora, il punto è che anni di stamperie monetarie hanno incentivato il ricorso all’indebitamento. Quello globale è esploso a 313 mila miliardi di dollari a fine 2023, al 238% del Pil. Una decina di anni fa, il livello era inferiore al 220%. Possono sembrare variazioni risibili, ma c’è un problema: il debito costava molto meno fino a un paio di anni fa. Oggi, il suo rifinanziamento pesa molto di più sulle casse di famiglie, imprese e governi. E se la crescita per giunta rallenta, le risorse da accantonare per onorarlo dovranno aumentare. In sostanza, tassi alti implicano spesa per interessi in netta accelerazione, ergo bilanci più magri per il settore privato e quello pubblico. E’ l’austerità, bellezza!
Le banche centrali speravano già di abbassare in misura significativa i tassi di interesse. Ma l’inflazione non ha voluto sentirne di scendere ai target da queste fissati. E così la Federal Reserve ha dovuto rinviare il taglio di appuntamento ad appuntamento. Non se ne parlerebbe prima di settembre. Gli investitori non l’hanno presa bene.
Crisi mercati pizzino a governi e istituti
La crisi dei mercati di questi giorni non sembra (per fortuna) somigliare tanto a quella del 2008, bensì a un pizzino inviato dalle grandi case di investimento alle banche centrali: “occhio a tenere i tassi alti troppo a lungo, perché non reggiamo più”. Anche perché gli stessi governi stanno riducendo il loro sostegno alle rispettive economie, tendendo a una politica di bilancio più prudente. Ma se ciò avviene in un contesto di alti tassi, la recessione sarebbe solo questione di tempo. I mercati stanno mettendo in guardia i policy maker che o allentano la politica monetaria o proseguono con l’espansione fiscale. La sensazione è che le banche centrali abbiano capito l’antifona e inizieranno a cambiare narrazione sin dai prossimi giorni.