Questa settimana, alla vigilia di Jackson Hole, il simposio delle banche centrali che annualmente si tiene nel Wyoming, l’indice Msci delle valute emergenti segnava un nuovo massimo storico contro il dollaro Usa. Dall’inizio dell’anno, il rialzo è stato inferiore al 2%, ma tanto è bastato per battere il record. C’è attesa per cosa dirà il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell. Secondo analisti e mercati, a settembre taglierà i tassi di interesse negli Stati Uniti. E lo farebbe altre due volte entro la fine dell’anno per una riduzione complessiva del costo del denaro di 100 punti base o 1% da qui a dicembre.
Valute emergenti sorrette da propensione al rischio
Il dollaro si sta indebolendo contro le altre divise mondiali. I flussi dei capitali si spostano laddove i tassi sono più alti per ottenere rendimenti maggiori. E la prevista maggiore liquidità sui mercati foraggia la propensione al rischio. Tutto ciò spiega il boom delle valute emergenti. L’indice, tuttavia, è fin troppo composito per dedurne un trend simile per economie tra di loro assai diverse.
Quando parliamo di valute emergenti, ci riferiamo a divise relativamente forti come lo yuan cinese, la rupia indiana, lo scellino israeliano, il peso cileno, il peso messicano, il rand sudafricano, il real brasiliano, il dollaro di Taiwan, ecc. Ma ce ne sono anche molto deboli come la lira turca, l’ondivago rublo russo, il peso argentino, la naira nigeriana, la lira egiziana e via discorrendo. Mai come in questi casi vale l’invito a non fare di tutta un’erba un fascio.
Riforme necessarie contro la crisi
In effetti, di valute emergenti in profonda crisi ve ne sono tante in questa fase. Anzi, i casi di collasso valutario sembrano moltiplicarsi, specialmente in Africa. Qui, l’Etiopia ha smesso a luglio di tenere il cambio fisso tra birr e dollaro.
Addis Abeba è stata costretta a svalutare il birr per impedire il prosciugamento delle riserve valutarie. Gli afflussi dei capitali dall’estero si sono arrestati da tempo a causa dei conflitti tra governo centrale e ribelli del Tigrè. Spostandoci dall’altra parte del continente, la naira ha perso nell’ultimo anno oltre la metà del suo valore. Il nuovo presidente Bola Tinubu sta cercando di implementare le riforme economiche necessarie per risollevare le sorti dell’ex “stella d’Africa“. Ha affidato la formazione del tasso di cambio alle forze del mercato e tagliato i sussidi alla popolazione, tra cui per le bollette della luce. L’inflazione è naturalmente esplosa fino a un massimo sopra il 34% a giugno, record dal 1996.
E sappiamo cosa accade da anni in Argentina. Con le elezioni presidenziali di novembre, ha vinto per la prima volta un candidato outsider, l’anarco-capitalista Javier Milei. Questi ha liberalizzato il cambio e ha già portato in pochi mesi il bilancio dello stato in pareggio con pesanti tagli alla spesa pubblica. L’inflazione si è impennata fino a un massimo vicino al 300% su base annua, ma il ritmo di crescita mensile dei prezzi è stato in calo quasi costante da dicembre. Nel frattempo, i pesos hanno perso i due terzi del loro valore e al mercato nero valgono il 30% in meno.
Mercati guardano al Sudafrica
La crisi di tante valute emergenti dipende dalla cattiva gestione macroeconomica dei governi. Ad esempio, il rand sudafricano si è apprezzato del 3,5% contro il dollaro dalla fine di maggio, quando si sono tenute le elezioni politiche. Queste hanno esitato per la prima volta dalla fine dell’apartheid l’assenza di una maggioranza assoluta per l’African National Congress, il partito che fu di Nelson Mandela e che ha devastato l’economia domestica tra corruzione, incompetenza e incapacità di gestire il fenomeno della criminalità dilagante.
Valute emergenti, tante storie diverse
Il record storico segnato dall’indice per le valute emergenti non deve, quindi, darci l’illusione che la parte in via di sviluppo nel mondo stia vivendo una sua età dell’oro. Le situazioni sono molto diverse tra loro per fornire una lettura univoca. Numerosi paesi sono andati in default con la pandemia. Solamente in Africa sono stati tre e il Kenya sembra ad un passo dall’alzare bandiera bianca. Altri stanno approfittando, pur tra molte criticità negli ultimi anni, del boom delle materie prime. E’ il caso del Cile, principale produttore di rame, il cui cambio rimbalza di oltre il 6% dai minimi dell’anno contro il dollaro. Storie diverse, accomunate semmai da un filo conduttore: l’implementazione o l’assenza di riforme.