Trump vuole rifare grande l’America, è pronto a rinunciare ai privilegi del dollaro?

Se Donald Trump vuole rendere l'America davvero grande di nuovo, dovrebbe rinunciare ai privilegi del dollaro. Ne sarà capace?
2 settimane fa
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I privilegi del dollaro alla base dei problemi dell'America
I privilegi del dollaro alla base dei problemi dell'America © Licenza Creative Commons

Due parole chiave nel discorso della vittoria del presidente eletto Donald Trump: “golden age”. Sarà “un’era d’oro” per l’America, ha promesso ai suoi sostenitori festanti quando in Italia ieri erano passate da poco le ore 8.30 di mattina. Lo slogan che è diventato un tormentone mondiale sin dalla campagna elettorale del 2016 è “Make America Great Again” (con acronimo MAGA), cioè “Rifacciamo l’America di nuovo grande”. Passando alla realtà, ciò potrebbe implicare un passaggio traumatico e doloroso per il popolo americano e le sue istituzioni: la rinuncia ai “privilegi” del dollaro.

L’altra faccia dei privilegi del dollaro: bilancia commerciale in profondo rosso!

Trump crede che la ricetta per rilanciare l’economia americana sia di imporre dazi alla Cina ed eventualmente all’Europa. Dalla sua ha alcuni dati terrificanti: le importazioni nette degli Stati Uniti superano ormai costantemente e abbondantemente i 1.000 miliardi di dollari ogni anno. Sono qualcosa come il 3-4% del Pil. Quest’anno, ad esempio, già al 30 settembre il disavanzo commerciale ammontava a quasi 875 miliardi, in crescita di 75 miliardi rispetto ai primi nove mesi del 2023. Un trend che non accenna a migliorare.

Bilancia commerciale Usa
Bilancia commerciale Usa © Licenza Creative Commons

 

L’economia americana non è competitiva. E questo può sembrarci assurdo, visto che noi europei siamo abituati a pensare che gli Stati Uniti siano un esempio di competitività nel mondo. Il discorso è molto complesso. E’ vero che importano molto di più di quanto esportino, ma in moltissimi casi solo perché le multinazionali americane stesse hanno dislocato le produzioni altrove, specie in Asia. Ed è proprio di questo che si lamentano i lavoratori della Rust Belt, che hanno votato in massa per Trump anche questa volta. E cosa c’entrano i privilegi del dollaro di cui abbiamo accennato sopra? E cosa sarebbero di preciso?

Dollaro valuta di riserva mondiale

Il dollaro è valuta di riserva mondiale.

Le banche centrali, ma anche entità finanziarie private, devono possederne in buona quantità per acquistare materie prime e commerciare con gli Stati Uniti. La domanda di dollari nel mondo è sempre elevata. Questo assegna al governo americano un “privilegio esorbitante”, per dirla come l’ex presidente francese Valery Giscard d’Estaing. Zio Sam può permettersi di stamparne più del dovuto senza incorrere in alcuna sanzione del mercato. Un po’ come uno studente che ha 10 in pagella e che grazie alla sua nomea di diligentissimo può permettersi anche di arrivare poco preparato a qualche interrogazione.

Indice del dollaro
Indice del dollaro © Licenza Creative Commons

Tassi bassi e deficit alti

Non temendo l’indebolimento del dollaro, la Federal Reserve può permettersi il lusso di tenere i tassi di interesse a livelli relativamente contenuti. Qualsiasi altra economia sarebbe costretta a tenere i tassi alti se registrasse forti deficit fiscali e un aumento del debito pubblico con annessi rischi di sostenibilità. Solo così eviterebbe la fuga dei capitali all’estero. Non è il caso degli Stati Uniti, grazie proprio ai privilegi di cui gode il dollaro per il suo status.

Tassi Fed reali
Tassi Fed reali © Licenza Creative Commons

In effetti, il governo americano è tutto tranne che parsimonioso. I suoi deficit di bilancio sono regolarmente elevati, salvo poche eccezioni, come nella seconda metà degli anni Novanta. In quel periodo, riuscì a chiudere in attivo i conti pubblici e ad abbassare il rapporto tra debito e Pil. Nel grafico di sotto abbiamo riportato i disavanzi fiscali, facendo un confronto con la Germania negli ultimi decenni.

Deficit di bilancio Usa
Deficit di bilancio Usa © Licenza Creative Commons

Svalutazione del dollaro nel 1985

L’eccesso di spesa pubblica sulle entrate stimola la domanda interna, cioè consumi e investimenti.

Lo stesso fanno i tassi di interesse reali che la Fed può permettersi di mantenere a livelli relativamente bassi. E questo a sua volta aumenta le importazioni di merci e servizi dall’estero. Gira e rigira sono proprio i privilegi del dollaro ad inguaiare l’economia americana. Il beneficio per tutti è che governo e privati possono indebitarsi a costi contenuti, l’altra faccia della medaglia è che le importazioni sovrastano strutturalmente le importazioni. Una situazione nota da molto tempo, tant’è che nel 1985 l’allora amministrazione Reagan concordò una svalutazione del dollaro (Accordo di Plaza) con le altre principali potenze mondiali (Regno Unito, Canada, Francia, Germania e Giappone).

Ma le svalutazioni concordate nel mondo odierno non sono più possibili. Inoltre, sono soluzioni dal respiro corto. Servono soluzioni strutturali. Quali? Il governo americano dovrebbe comportarsi come se il dollaro non avesse privilegi. Come? Risanando il bilancio federale e consentendo così alla Fed di tenere i tassi a livelli più appropriati. Ad oggi, l’istituto ha un occhio di riguardo alla sostenibilità del debito, con la spesa per interessi già esplosa sopra 1.000 miliardi all’anno.

Rinuncia a privilegi del dollaro dolorosa e necessaria

Se gli Stati Uniti si comportassero seguendo le ordinarie leggi dell’economia, la bilancia commerciale pian piano migliorerebbe. Ma questo sarebbe un processo doloroso nel breve periodo per gli americani. Pagherebbero prestiti e mutui più cari, mentre dovrebbero accettare tagli alla spesa pubblica e/o maggiori tasse. L’esercizio dei privilegi ha altresì minato alla credibilità del dollaro tra le cancellerie straniere. In Asia si chiedono se sia conveniente continuare ad investire in Treasuries e a commerciare nella divisa americana, con un debito pubblico sopra il 120% del Pil. Rifare grande l’America significherebbe ripristinare la fiducia nel dollaro con politiche parsimoniose sul fronte fiscale e senza reclamare dalla Fed tassi infimi per finanziare i deficit a basso costo. La risposta dei dazi rischia di essere una cura palliativa.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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