Borse europee sottotono ad inizio di seduta, malgrado le novità arrivate dalla Cina. A Pechino si è riunito il Politburo, il comitato del Partito Comunista di cui fanno parte i 24 componenti più anziani e presieduto da Xi Jinping. E ha deliberato una vera svolta in termini di politica economica. Per la prima volta dalla crisi finanziaria globale del 2009, l’organismo ha richiamato alla necessità di un “allentamento monetario” e di una “politica fiscale proattiva” per sostenere la crescita cinese. Ha ribadito la fiducia circa il raggiungimento di un aumento del Pil di “circa il 5%” per quest’anno. Tra le sfide menzionate, la necessità di proseguire con la risoluzione dei problemi sorti nel settore immobiliare e il sostegno ai mercati azionari.
Non è solo reazione ai dazi di Trump
La nuova impostazione di politica economica è stata percepita come una prima risposta ufficiale ai ventilati dazi della nuova amministrazione Trump. Il presidente eletto ha annunciato che imporrà un innalzamento delle tariffe sulle merci cinesi al 60% per reagire all’esportazione di fentanyl dalla Cina. E queste misure avrebbero senso, se l’obiettivo fosse di neutralizzare la minaccia statunitense. Almeno per un primo periodo, il cambio contro il dollaro s’indebolirebbe. E per tale via la Cina recupererebbe parte della competitività perduta attraverso i dazi.
Ma una politica fiscale espansiva, che si sostanzia in un aumento della spesa pubblica in deficit, avrebbe effetti opposti sul cambio. Con il passare del tempo, infatti, spingerebbe la Banca Popolare Cinese ad alzare i tassi di interesse per evitare un surriscaldamento eccessivo dei prezzi al consumo. E’ vero, però, che al momento la seconda economia mondiale non solo non ha problemi di inflazione, ma rischia di scivolare in uno stato di deflazione strisciante.
C’è il timore nel governo di una “sindrome giapponese“. Per questo Pechino si può permettere di tagliare i tassi, in controtendenza rispetto alle principali banche centrali del pianeta, persino dello stesso Giappone.
Eccessivi investimenti in Cina
Sarebbe limitativo guardare alla nuova politica economica cinese solamente come una risposta ai dazi di Trump. Questi starebbero fungendo, semmai, da acceleratore di una tendenza avvertita nel governo sin da prima del Covid. Il problema è noto: la Cina è dipendente dalle esportazioni. Senza, smetterebbe di crescere. Tuttavia, anche questa linea di ragionamento è parziale. I suo surplus commerciali nel quinquennio passati hanno inciso mediamente per meno del 4% rispetto al Pil. La Germania ha fatto meglio con quasi il 5%.
Il vero problema cinese è un altro: ha consumi privati troppo bassi, pari al 39% del Pil contro una media intorno al 60% per le economie avanzate (dal 54% della Germania al 70% degli Stati Uniti). Ma al contempo ha una spesa per investimenti al 42% del Pil, circa il doppio rispetto alle altre grandi economie ricche. Più che uno stimolo alla domanda aggregata interna, necessita di una sua ricomposizione a favore dei consumi. Ad occhio e croce, alla Cina servono circa 20 punti di Pil in più in consumi e 20 in meno in investimenti. L’eccesso di questi ultimi sono stati alla base dell’ipertrofico settore immobiliare, con città fantasma costruite senza che ve ne fosse bisogno.
Nuova politica economica per guidare la transizione
E poiché le imprese investono troppo (e a debito), di fatto aumentano in maniera eccessiva anche la produzione. Il solo mercato interno non basta per soddisfare l’offerta, per cui sono costrette a rivolgersi ai mercati esteri per vendere i loro surplus.
Da qui l’inondazione di merci cinesi a basso costo nel resto del pianeta. Transitare l’economia verso un modello più bilanciato tra consumi e investimenti non è facile. Bisogna trovare il giusto equilibrio per impedire che i secondi, sgonfiandosi, trascinino il Pil negli abissi.
A questo serve l’annuncio di politica economica delle scorse ore, ad avviare la transizione. Gli effetti possono essere positivi per il resto del pianeta, cioè noi. Consumi cinesi più alti possono significare esportazioni europee e nordamericane maggiori. Ma se la svolta portasse a un pur temporaneo deprezzamento dello yuan, il rischio può consistere nel ritrovarci a importare ancora di più dalla Cina per i costi ancora più bassi delle sue merci.