Lunedì 20 gennaio Donald Trump sarà ufficialmente il nuovo presidente degli Stati Uniti. La sua amministrazione non è ancora nata, ma tutti i leader mondiali sanno dove andrà a parare: i dazi. Una minaccia che incombe particolarmente per Messico, Canada, Cina ed Europa. C’è l’immenso deficit commerciale da risanare e che ogni anno vale più di 1.000 miliardi di dollari. E per rilanciare la competitività dell’economia americana, il tycoon vorrebbe siglare un nuovo Accordo di Plaza.
Deficit commerciale USA alto e cronico
Era il 1985 e la seconda amministrazione Reagan era anch’essa alle prese con il super dollaro. Negli anni precedenti, la Federal Reserve di Paul Volcker aveva alzato i tassi di interesse per sconfiggere l’inflazione. Ci era riuscita e il cambio si era apprezzato tantissimo contro le altre principali valute mondiali. D’altra parte, già meno di un quindicennio prima l’amministrazione Nixon aveva dovuto porre fine ad un altro accordo storico, quello siglato a Bretton Woods nel 1944 dai capi di stato e di governo delle nazioni nell’orbita occidentale.
Anche in quel caso fu il deficit commerciale americano a creare problemi. Le rogne arrivavano da Giappone e Germania, economie che stavano crescendo a colpi di esportazioni. E fu così che il segretario al Tesoro, James Baker, riunì i suoi colleghi di Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito per concordare la svalutazione del dollaro insieme alle rispettive banche centrali. L’operazione fu nota come Accordo di Plaza, perché venne sancita all’Hotel Plaza di New York. Riuscì nell’intento, con la divisa americana a perdere terreno negli anni seguenti contro marco tedesco e yen giapponese, in particolare.
Cina come Giappone anni ’80
Il mondo di oggi è molto diverso.
Non è più il Giappone lo spauracchio degli Stati Uniti, bensì la Cina di Xi Jinping. La Germania continua a infastidire Washington con i suoi eccessi commerciali negli States, ma lo stesso dicasi dell’Italia. Circa la metà del nostro avanzo commerciale complessivo arriva proprio dal mercato a stelle e strisce. Senza, la nostra bilancia commerciale piangerebbe. Ma davvero possiamo pensare che sia possibile un Accordo di Plaza 2.0? Il primo problema che il prossimo segretario al Tesoro, Scott Bessent, si troverà ad affrontare sono i nomi degli invitati. Se una cosa fu 40 anni fa convocare a New York i rappresentati di governi amici, un’altra sarebbe oggi convincere capitali come Pechino anche solo a prendere in considerazione la sollecitazione americana.
Forse è per questo che Trump si è presentato come l’uomo dei dazi. Consapevole che svalutare il dollaro sarebbe un’operazione tutt’altro che facile, vorrebbe terrorizzare i più restii ad un eventuale nuovo Accordo di Plaza con la minaccia di tariffe doganali più alte. Ma il problema per l’Eurozona non sarebbe per questo meno avvertito. Rivalutare il cambio euro-dollaro presuppone il possesso di un piano B per la crescita, che non abbiamo. Senza la leva delle esportazioni, servirebbe sostenere la domanda interna. E i margini fiscali per farlo non ci sono, se non in poche economie come la Germania.
Il rischio per noi consisterebbe nel precipitare verso la recessione per assenza di alternative al modello “export-led”.
Nuovo Accordo di Plaza non indolore
Bruxelles non si sta facendo trovare del tutto impreparata al giro di consultazioni che Trump avvierà subito dopo l’insediamento. Da settimane i commissari si preparano a presentare alla nuova amministrazione l’offerta di acquistare maggiori quantità di gas liquido naturale dagli Stati Uniti. Un modo per azzerare nei fatti la residua dipendenza energetica dalla Russia, rivelatosi partner inaffidabile e minaccioso alla nostra sicurezza territoriale, e che contribuirebbe a ridurre anche il deficit commerciale americano. Non basterà. La trattativa si sposterà su altre materie prime? Gli Stati Uniti abbondano di petrolio, ma non riescono ancora neanche a coprire il fabbisogno domestico. I termini di un eventuale Accordo di Plaza non saranno indolori per la nostra economia con la domanda interna debole e in assenza di sostegno.