Nelle manovre finanziarie degli ultimi anni tutti i governi hanno applicato dei tagli alle regole della rivalutazione. Con correttivi e modifiche, manovra dopo manovra, ma sempre con tagli alla cosiddetta perequazione delle pensioni più alte. Non è una novità del governo Meloni, così come non lo era del governo Draghi, perché, ad esempio, lo stesso accadeva con i governi Conte.
Naturalmente, le regole cambiano, poiché, nelle manovre degli ultimi anni, il governo in carica ha deciso di adottare scaglioni e regole differenti. E per la perequazione del 2024, queste regole sono arrivate fino alla Consulta, con i giudici costituzionalisti chiamati a esprimersi su un ricorso che contesta la presunta incostituzionalità del metodo utilizzato dal governo Meloni lo scorso anno.
Si tratta di una sentenza molto attesa, perché c’è chi spera di ottenere “giustizia” e un rimborso per quanto perso a causa dei tagli applicati alle pensioni oltre un determinato importo.
Aumento delle pensioni, rivalutazione a scaglioni e tagli agli aumenti, dal 2019 a oggi cosa è successo?
Negli ultimi anni la perequazione delle pensioni al tasso di inflazione ha seguito uno schema costante: le pensioni più alte hanno subito un taglio nell’indicizzazione al tasso di inflazione. Nel gennaio 2025, il governo Meloni ha adottato il seguente meccanismo:
- 100% di rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo INPS;
- 90% di rivalutazione per le pensioni superiori a 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo INPS;
- 75% di rivalutazione per le pensioni superiori a 5 volte il trattamento minimo INPS.
L’aumento, come noto, è stato calcolato sulla base di uno 0,8% di inflazione, e il meccanismo sopra descritto è stato progressivo.
Ossia il taglio è applicato solo alla parte di pensione che eccede lo scaglione precedente.
Nel 2024, invece, lo stesso governo ha introdotto un meccanismo che è finito davanti alla Corte Costituzionale:
- 100% di rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo INPS;
- 85% di rivalutazione per le pensioni superiori a 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo INPS;
- 53% di rivalutazione per le pensioni superiori a 5 e fino a 6 volte il trattamento minimo INPS;
- 47% di rivalutazione per le pensioni superiori a 6 e fino a 8 volte il trattamento minimo INPS;
- 37% di rivalutazione per le pensioni superiori a 8 e fino a 10 volte il trattamento minimo INPS;
- 22% di rivalutazione per le pensioni superiori a 10 volte il trattamento minimo INPS.
In questo caso il meccanismo non è progressivo, poiché la percentuale di indicizzazione più bassa è applicata all’intero importo della pensione. Nel gennaio 2024, le pensioni sono aumentate sulla base di un’inflazione del 5,4%.
Come si è arrivati agli aumenti di oggi e come sono cambiate le cose con i governi precedenti
Con la prima manovra del governo Meloni, il meccanismo adottato è stato simile a quello finito davanti alla Consulta. Infatti, nel 2023 le pensioni sono aumentate nel seguente modo:
- 100% di rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo INPS;
- 85% di rivalutazione per le pensioni superiori a 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo INPS;
- 53% di rivalutazione per le pensioni superiori a 5 e fino a 6 volte il trattamento minimo INPS;
- 47% di rivalutazione per le pensioni superiori a 6 e fino a 8 volte il trattamento minimo INPS;
- 37% di rivalutazione per le pensioni superiori a 8 e fino a 10 volte il trattamento minimo INPS;
- 32% di rivalutazione per le pensioni superiori a 10 volte il trattamento minimo INPS.
Nel 2023, la percentuale di inflazione da utilizzare a gennaio era pari al 7,3%, per poi passare all’8,1% con il tasso definitivo.
I tagli sono stati sempre applicati, ciò che è cambiato è il meccanismo
È importante ribadire che, anche con i governi precedenti, i tagli sono stati costantemente applicati. Questi tagli rientrano in un meccanismo di solidarietà e mirano anche a contenere i costi della spesa pubblica, permettendo di finanziare manovre di bilancio sempre più contenute. Il governo Draghi, ad esempio, ha adottato il metodo poi utilizzato per le perequazioni di gennaio 2025:
- 100% di rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo INPS;
- 90% di rivalutazione per le pensioni superiori a 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo INPS;
- 75% di rivalutazione per le pensioni superiori a 5 volte il trattamento minimo INPS.
Il meccanismo a fasce progressive ha origini più remote: fu il governo Prodi a stabilire dei tagli di indicizzazione applicabili solo alla parte di pensione che superava il limite dello scaglione precedente, un metodo naturalmente più favorevole per i pensionati. Successivamente, furono i governi Conte a cambiare le carte in tavola.
Con i vari esecutivi, guidati dall’attuale leader del Movimento 5 Stelle, iniziò a essere applicata una penalizzazione pesante sulle pensioni più alte. Nel dettaglio, il metodo usato, senza progressività e applicato all’intero importo della pensione, era il seguente:
- 100% di rivalutazione per le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo INPS;
- 77% di rivalutazione per le pensioni superiori a 4 e fino a 5 volte il trattamento minimo INPS;
- 52% di rivalutazione per le pensioni superiori a 5 e fino a 6 volte il trattamento minimo INPS;
- 47% di rivalutazione per le pensioni superiori a 6 e fino a 8 volte il trattamento minimo INPS;
- 45% di rivalutazione per le pensioni superiori a 8 e fino a 9 volte il trattamento minimo INPS;
- 40% di rivalutazione per le pensioni superiori a 9 volte il trattamento minimo INPS.
Il governo Conte e la sua sperimentazione triennale sulla rivalutazione delle pensioni
Fu quindi il governo Conte a introdurre, in via sperimentale per tre anni a partire dal 2019, il metodo articolato in 6 fasce.
Adesso, però, occorre attendere il parere dei giudici della Consulta: se riterranno incostituzionale il metodo, potrebbero obbligare l’attuale governo a rimborsare ai pensionati quanto perso.
In alternativa, potrebbero, accogliendo il ricorso presentato da un ex dipendente statale con una pensione elevata che ha subito il taglio, decidere di prevedere un rimborso una tantum, analogamente a quanto avvenuto ai tempi della legge Fornero e del successivo bonus Poletti, per compensare il blocco della perequazione operato dal governo Monti.