Non sempre un rapporto di lavoro può durare in eterno. Anzi, spesso capita che, pur essendo a tempo indeterminato, un rapporto di lavoro arrivi a conclusione. Le interruzioni possono derivare da diversi motivi e possono essere volute dal lavoratore con le dimissioni volontarie, dal datore di lavoro o da entrambi.
Se è il dipendente a decidere di lasciare il lavoro autonomamente, per lui le conseguenze possono essere piuttosto pesanti, mentre per il datore di lavoro questa soluzione potrebbe risultare la più vantaggiosa.
Oggi vedremo cosa comportano le dimissioni volontarie dal punto di vista del lavoratore e da quello del datore di lavoro.
Dimissioni volontarie, ecco i rischi per il lavoratore e i vantaggi per il datore di lavoro
Le dimissioni volontarie sono uno strumento fondamentale per il lavoratore che desideri lasciare il lavoro. Se tali dimissioni sono per giusta causa, non ci sono conseguenze particolari. Diverso il discorso quando si tratta di dimissioni volontarie in senso stretto, scaturite unicamente dalla volontà del dipendente di abbandonare il posto di lavoro, senza alcuna pressione da parte dell’azienda o senza condizioni lavorative insostenibili.
Se le dimissioni provengono da un lavoratore che ha già in mano un’altra opportunità più in linea con le sue aspettative, non si verificano effetti negativi. Al contrario, se il dipendente punta a ottenere la Naspi, va detto che, con le dimissioni volontarie, l’indennità di disoccupazione non spetta. Questa è la conseguenza più grave, perché si perde il diritto alla Naspi.
Inoltre, se il lavoratore si trova prossimo alla pensione, ci sono alcune misure previdenziali a cui non può accedere dopo essersi dimesso.
Tra queste, la quota 41 per i precoci e la pensione con l’Ape sociale, entrambe vincolate alla perdita involontaria del lavoro e al relativo diritto alla Naspi.
Il datore di lavoro furbo spinge alle dimissioni volontarie il dipendente
Succede spesso che un datore di lavoro “consigli” al dipendente di presentare dimissioni volontarie, anche se è lo stesso datore a voler risolvere il rapporto. È un suggerimento dietro cui si cela un tornaconto per l’azienda.
Sullo stesso datore di lavoro, infatti, grava l’onere di versare il ticket licenziamento. Quando un datore licenzia un dipendente, deve versare un corrispettivo all’INPS, che finanzia in parte la Naspi spettante al lavoratore licenziato. Il ticket licenziamento è calcolato in funzione della durata del rapporto di lavoro. Più è anziano il dipendente all’interno dell’azienda, maggiore è la somma che l’azienda deve pagare.
Come funziona il ticket licenziamento 2025
Introdotto con la Legge Fornero, il ticket licenziamento corrisponde al 41% del massimale di Naspi previsto dalle normative vigenti, recentemente aggiornate. Con la circolare numero 25 del 29 gennaio 2025, l’INPS ha confermato il nuovo massimale Naspi, fissato a 1.562,82 euro per l’intero anno. Si tratta dell’importo massimo mensile di Naspi teoricamente spettante a un disoccupato.
Di conseguenza, il ticket licenziamento 2025 è pari a 640,76 euro per ogni anno di lavoro svolto dal dipendente. Le frazioni di anno si calcolano nello specifico di 53,40 euro per ogni mese di anzianità di servizio.
Il ticket licenziamento, però, ha un tetto massimo che nel 2025 non potrà superare 1.922,28 euro, soglia riferita ai licenziamenti di dipendenti impiegati da 3 o più anni presso la stessa azienda.
Con le dimissioni volontarie, il ticket licenziamento non è dovuto. Ecco perché i datori di lavoro sono spesso incentivati a suggerire le dimissioni al dipendente.
Le novità del 2025, la nuova assunzione mai inferiore a 3 mesi
Le dimissioni volontarie “indotte” dal datore di lavoro comportano, per il dipendente, la perdita della Naspi. E oggi si pone anche un freno a eventuali nuove assunzioni successive alle dimissioni.
Spesso, infatti, si adotta una soluzione grazie alla quale il datore di lavoro, dopo aver “liberato” il dipendente con le dimissioni, lo aiuta a trovare un nuovo impiego temporaneo, così che, alla scadenza di tale contratto, il lavoratore possa far valere i periodi precedenti e riottenere la Naspi.
In questo modo, il datore risparmia il ticket, e il lavoratore sblocca il diritto alla disoccupazione. Tutti contenti, dunque.
Adesso, però, la nuova assunzione non può più durare poche settimane: deve avere una durata minima di 3 mesi.
Per le dimissioni volontarie attenzione al termine di preavviso, ci sono penalità
Un altro aspetto da considerare, quando si parla di dimissioni volontarie, è il termine di preavviso. Così come il datore di lavoro deve rispettare un periodo di preavviso quando licenzia un dipendente, allo stesso modo deve fare il lavoratore che sceglie di dimettersi. Il termine di preavviso, che di solito decorre dalla data di effetto delle dimissioni, varia a seconda del settore lavorativo e del CCNL applicato.
Il termine di preavviso dipende anche dall’anzianità di servizio del dipendente. Chi decide di dimettersi senza rispettare tale preavviso va incontro a conseguenze economiche, come la trattenuta relativa all’indennità di mancato preavviso nell’ultima busta paga o sul TFR. Anche in questo caso, i dettagli variano da contratto collettivo a contratto collettivo, e si possono configurare penalizzazioni di diversa entità.