Ingiustizia o equità sociale, ecco sulle pensioni INPS chi ha perso di più e perché

Ecco cosa è successo sul taglio delle pensioni INPS dopo la sentenza della Corte Costituzionale sulla rivalutazione delle pensioni.
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Ingiustizia o equità sociale, ecco sulle pensioni chi ha perso di più e perché
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Tiene banco da giorni la questione relativa alla sentenza della Consulta, che ha confermato la piena legittimità costituzionale del taglio della perequazione sulle pensioni del 2023 e del 2024 erogate dall’INPS. Molti siti hanno titolato che la Corte Costituzionale ha dato ragione al governo, mentre altri hanno sottolineato le cifre effettivamente tagliate. Tuttavia, se per la Consulta il taglio della rivalutazione è costituzionalmente legittimo, dal punto di vista sociale il discorso cambia. E, com’è naturale, c’è chi si dice favorevole e chi, invece, contrario.

Ingiustizia o equità sociale, ecco sulle pensioni INPS chi ha perso di più e perché

Sulla pronuncia dei giudici costituzionalisti la politica ha offerto poche riflessioni.

A sinistra, in genere, si privilegia il principio di colpire chi ha di più per aiutare chi ha di meno, un approccio che evidentemente vale anche per le pensioni. A destra, invece, si tende a sostenere chi dispone di maggiori risorse, affinché possa generare posti di lavoro e vantaggi economici anche per le fasce di reddito più basse.

Si tratta di principi e teorie entrambi con una loro logica, e forse è anche per questo che i commenti alla sentenza della Consulta non si sono polarizzati in modo netto. Eppure, si tratta di una decisione di grande rilievo, poiché la questione era spinosa. Infatti, nel 2023 e nel 2024, le pensioni sono state rivalutate in misura piena solo fino a 4 volte il trattamento minimo INPS.

Successivamente è scattato un forte decalage, sempre più marcato al crescere dell’importo pensionistico, con tagli sull’intero assegno e senza quel meccanismo progressivo che di solito attenua tali riduzioni.

Pensioni alte tagliate, perché si è arrivati alla querelle costituzionale?

In effetti, a partire dalle pensioni fino a 5 volte il minimo e poi salendo fino a 6, 8, 10 o oltre, il taglio è risultato piuttosto pesante.

In pratica, il tasso di inflazione applicato sulle pensioni è stato ridotto dall’85% per gli assegni fino a 5 volte il minimo, al 32% e poi al 22% per le pensioni oltre 10 volte il trattamento minimo INPS.

Le pensioni oltre i 6.000 euro al mese (corrispondenti a più di 10 volte il trattamento minimo) avrebbero perso, secondo alcuni studi statistici, oltre 10.000 euro in questi anni. Per esempio, la UIL ha analizzato le rivalutazioni degli ultimi dieci anni. Evidenziando come già una pensione di 3.500 euro al mese abbia subito una perdita di circa 10.000 euro.

È chiaro che, se la Consulta avesse invalidato i tagli, il governo avrebbe dovuto stanziare ingenti risorse per risarcire i pensionati colpiti.

Le pensioni INPS e le differenze di importo da cui partono i tagli della rivalutazione

Occorre però ricordare che queste sono pensioni INPS di persone che, di fatto, non vivono in condizioni di povertà. La Consulta ha tenuto conto proprio di questo. Ossia dell’importanza di contenere la perdita di potere d’acquisto dei trattamenti pensionistici. Ma anche del fatto che, su una pensione di importo elevato, tale perdita non incide quanto su una pensione bassa.

Tuttavia, questa scelta stride con il principio secondo cui chi percepisce una pensione elevata lo fa perché, come previsto dall’articolo 36 della Costituzione, nel corso della carriera lavorativa ha ottenuto una remunerazione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto.

Ciò che probabilmente ha suscitato più perplessità sul meccanismo di rivalutazione del 2023 e del 2024 è la mancata progressività. I tagli, infatti, si sono applicati sull’intero ammontare della pensione.

In concreto, una pensione fino a 4 volte il minimo è stata rivalutata al 100% del tasso di inflazione. Mentre un assegno oltre 10 volte il minimo, nel 2024, ha ottenuto solo il 22% dell’adeguamento. Inoltre, non ha beneficiato della salvaguardia di una rivalutazione piena per la quota fino a 4 volte il minimo. Come invece previsto dal nuovo meccanismo introdotto per il 2025.

In conclusione, tutti contenti?

A scanso di equivoci, nel 2025 il governo ha deciso di ripristinare un vecchio sistema di rivalutazione delle pensioni INPS, con tagli più contenuti. In particolare, si riconosce il 100% dell’inflazione fino a 4 volte il trattamento minimo. Poi il 90% tra 4 e 5 volte e il 75% oltre 5 volte.

Inoltre, la percentuale inferiore si applica solo alla parte di pensione che eccede lo scaglione precedente. In pratica, nel 2025, una pensione superiore a 10 volte il minimo si rivaluta in misura piena per la quota fino a 4 volte. Poi al 90% tra 4 e 5 volte e solo al 75% per l’importo ulteriore.

La Corte Costituzionale non ha bocciato né il metodo che, scaglione dopo scaglione, ha fortemente ridotto la rivalutazione né il mancato ricorso alla progressività. Con buona pace di chi si aspettava rimborsi o aumenti. Ma anche a vantaggio del governo, che ha così evitato un autentico “bagno di sangue” sul piano finanziario, qualora fosse stato necessario restituire su larga scala quanto tagliato.

Va detto, infine, che questi tagli non sono stati introdotti dal governo Meloni. Diversi esecutivi, in passato, hanno fatto ricorso a simili misure E, non a caso, i sindacati hanno spesso coniato l’espressione “pensionati bancomat”.

Giacomo Mazzarella

In Investireoggi dal 2022 è una firma fissa nella sezione Fisco del giornale, con guide, approfondimenti e risposte ai quesiti dei lettori.
Operatore di Patronato e CAF, esperto di pensioni, lavoro e fisco.
Appassionato di scrittura unisce il lavoro nel suo studio professionale con le collaborazioni con diverse testate e siti.

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