Gli effetti della procedura di amministrazione controllata statunitense sui bond delle aziende, ed alcune risposte alle domande più frequenti che si pongono gli investitori coinvolti nel fallimento.
I recenti fallimenti di importanti istituzioni finanziarie USA come Lehman Brothers e quelli ipotizzati per aziende storiche come General Motors hanno portato all’attenzione del pubblico la procedura del Chapter 11 statunitense, che potremmo definire come un equivalente, in maniera approssimativa, della nostra amministrazione controllata.
In realtà, la prima significativa differenza sta proprio nel fatto che nel Chapter 11 non esiste un “amministratore” esterno nominato per gestire l’azienda, ma il management continua ad operare autonomamente, sia pure spesso affiancato e consigliato da consulenti esterni, gravato dall’obbligo di richiedere l’autorizzazione, per le decisioni operative più importanti, al giudice, tenuto a confrontarsi con il comitato creditori, con i rappresentanti degli azionisti e dello Stato, ecc.
Poiché più di una grande società USA, fra quelle oggi a rischio di dover avvalersi della procedura, ha emesso bond anche in Euro, cerchiamo di tracciare un quadro generale per rispondere alle domande che generalmente sorgono all’atto della “brutta sorpresa” di trovarsi con i bond in default, e trasformati in creditori che verranno soddisfatti al termine della procedura. Credo che la prima domanda che sorge sia: quanto durerà la procedura e quanto si può recuperare. La risposta in realtà varia per ogni singolo caso, ma è possibile tracciare un quadro generale. La durata della procedura è variabile, ma per aziende di grandi dimensioni e con strutture organizzative complesse non è ipotizzabile occorra meno di alcuni anni, tranne il caso di bancarotte di tipo particolare, fra le quali ad esempio le cosiddette “pre-packaged”, in cui l’azienda affronta la procedura con una “soluzione” di ristrutturazione già studiata con i creditori (fra i quali senz’altro gli obbligazionisti, se presenti, per tramite di propri rappresentanti). In ipotesi del genere, è possibile ipotizzare tempi “relativamente” brevi, sebbene tuttavia la procedura si presti all’emergere di moltissime situazioni inattese, che possono complicare – e dunque rallentare – sensibilmente il suo svolgimento.
Occore poi non lasciarsi illudere dalla presenza, nella procedura, di “deadlines” (scadenze) piuttosto brevi entro le quali l’azienda deve presentare il piano di riorganizzazione. Tecnicamente, esse definiscono un arco di tempo in cui il management ha un diritto esclusivo a presentare un tale piano, in quanto in linea teorica questa prerogativa può essere concessa, in un secondo tempo, anche ad altri soggetti, quali i creditori, ecc. Nella prassi tuttavia le deadlines per il piano di ristrutturazione sono termini non perentori ed è molto frequente assistere alla richiesta al Tribunale di più proroghe successive, per cui si può ben dire che manchino obblighi piuttosto che incentivi per una definizione dei casi di Chapter 11 in tempi brevi. Quali è il recovery (la percentuale di recupero sul valore del credito) medio per gli obbligazionisti in caso di Chapter 11 ? In questo ci può assistere uno studio effettuato alcuni anni fa, e riassunto nel seguente grafico: Come si può vedere, la concentrazione maggiore si ha intorno a percentuali del 35%-40% (o a 35/40 centesimi di dollaro, come dicono gli americani). In meno del 2% dei casi si recupera il 100% e solo in pochissimi casi, quasi irrilevanti statisticamente, il recovery è pari a zero, ossia si perde tutto. Nel computo va tenuto presente il fattore tempo (il pagamento avviene, il più delle volte, dopo alcuni anni, durante i quali il proprio investimento è immobilizzato…) ed inoltre, nel caso i bondholder siano “forzati” a diventare azionisti della nuova società risultante dalla ristrutturazione, come talvolta succede, la percentuale del recupero è effetto di una stima del valore delle azioni fatta al termine della procedura, ma è soggetto ad oscillazioni anche marcate non appena l’azienda viene ri-quotata sul mercato azionario. La cattiva notizia è che il recovery rate medio ha il limite di tutti i valori statistici. Parafrasando il Trilussa, si può ben dire che se ogni obbligazionista recupera in media il 40% del proprio pollo, nella pratica capita non di rado di ritrovarsi con poco più di qualche osso, mentre in pochi casi fortunati si recupereranno percentuali particolarmente significative del proprio investimento.
A ciò va aggiunto che il momento che stiamo vivendo è eccezionale anche nel senso che diverse aziende hanno già oggi dei bilanci che lasciano presagire recuperi molto bassi in caso di Chapter 11. Percentuali più elevate della media si hanno in caso di attività industriali, più che finanziarie,e spesso se il Chapter 11 è “anticipato”, ovvero se è intrapreso quando il conto economico non è in forte sofferenza. Il paradosso è che la procedura è decisamente costosa, e va affrontata con un ampio margine di cash disponibile. Oggi, per via del credit crunch, è difficile per alcune aziende finanche il reperimento dei finanziamenti per affrontare il Chapter 11 (il cosiddetto DIP financing, finanziamento che dà luogo in capo a chi lo eroga ad un credito prioritario al rimborso al termine della procedura, sopravanzando tutti gli altri creditori, inclusi gli obbligazionisti). Un esempio della situazione descritta è dato dal caso di General Motors, azienda per la quale importanti commentatori hanno espresso l’opinione secondo cui il solo ente in grado di farsi carico del finanziamento di una eventuale procedura di Chapter 11 sarebbe il Governo americano. Nella prossima puntata: cosa succede ai bond post-default? Chi compra? La seconda puntata è disponibile seguendo questo link.ha collaborato all’articolo:i98Mark