La crisi dell’area Euro scuote il mondo accademico. Se gli USA e il Giappone iniziano a intravedere segnali più o meno consolidati di ripresa, l’Europa, impegnata nell’attuazione di politiche di austerità fiscale, non vede la luce in fondo al tunnel, quando sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi dei sub-prime negli USA.
Per il premio Nobel, Paul Krugman, non ci sarebbero dubbi: la crisi europea è frutto di ricette economiche sbagliate e propinate da quelli che egli chiama i “Bocconi Boys”, una definizione che ricorda l’etichetta cucita addosso agli economisti sudamericani che negli anni Settanta e Ottanta furono vicini a un altro Nobel, il monetarista Milton Friedman.
Secondo Krugman, le tesi di Alesina-Ardagna sulla cosiddetta “austerità espansiva” sarebbero frutto di clamorosi errori di calcolo e smentiti da altre ricerche accademiche più puntuali, come quella effettuata dal Roosevelt Institute.
Insomma, per il Nobel, la crisi senza sbocco apparente dell’Area Euro sarebbe conseguenza di teorie sbagliate e dell’ostinazione tedesca a portare avanti il rigore a tutti i costi, vuoi per una caratteristica morale della Germania, vuoi pure per tutelare i propri interessi.
Alesina contro Krugman: interpretazioni diverse sulla crisi dell’Eurozona
Ma il Prof.Alberto Alesina non ci sta e contrattacca in un’intervista a “Il Foglio”. Laureatosi alla Bocconi di Milano, ma oggi docente alla Harvard University (che ha fama di essere un ateneo filo-keynesiano), Alesina smonta il suo “rivale” e lo definisce un “estremista” da un punto di vista accademico.
Il Prof sostiene che Krugman rappresenti l’ala ultra-liberal a sostegno dell’amministrazione Obama e che in assenza di argomentazioni ragionate sulla sostenibilità di alti livelli di spesa pubblica e di debito, egli abbia sviato il dibattito accademico negli USA tra favorevoli alle sue posizioni e contrari, con questi ultimi dipinti quali a capo di un presunto complotto e contrari al benessere sociale.
Ma aldilà della risposta piccata dell’economista italiano, la parte più importante dell’intervista riguarda la puntualizzazione della sua tesi. Alesina spiega, infatti, di non essere stato un sostenitore dell’austerità tout court, bensì di caldeggiare misure di riduzione della spesa pubblica, per consentire non solo di risanare i conti degli stati, bensì anche di tagliare le tasse, che strangolano altrimenti la crescita. “Volere la riduzione delle tasse è da rigoristi?”, si chiede polemicamente il Prof.
Sul caso BCE, egli ricorda che nella lettera famosa spedita all’Italia nell’estate del 2011 non c’erano indicazioni per un inasprimento della pressione fiscale, ma per una riduzione della spesa pubblica. D’altronde, continua Alesina, chi può pensare che un debito pubblico al 130% o al 200% del pil sia un bene?
Lite tra economisti, si direbbe. Invece, la questione è tutt’altro che accademica. Riguarda la visione stessa della società e il modo in cui si vorrebbe ridisegnare il futuro delle prossime generazioni, se attraverso uno stato snello, efficiente, con bassi livelli di pressione fiscale e di indebitamento, o se basato su uno stato più generoso nell’erogazione di beni e servizi, ma fiscalmente più oppressivo, più indebitato e meno allettante per gli investimenti.
A volere essere sinceri, lo scontro di questi mesi ricorda quello innescato oltre cinquanta anni fa da quella che gli economisti chiamano la “curva di Phillips”, i cui strascichi guarda caso durano ancora oggi e che riguardano (ancora, guarda caso!) la bontà o meno delle politiche monetarie accomodanti; ossia, le misure che Federal Reserve e Bank of Japan stanno attuando in funzione anti-ciclica.