Uscita distrutta e sconfitta dalla Grande Guerra (1914-’18), la Germania si ritrovò nella fase post-bellica a gestire un’economia al collasso: la produzione industriale nel 1920 era di appena il 61% i livelli del 1913, mentre nel 1923 era scesa al 54%. Al contempo, la quantità di Papiermark (così era chiamato il vecchio marco tedesco) era esplosa dai 5,9 miliardi del 1914 ai 32,9 miliardi del 1918. E i prezzi si erano impennati del 115% in soli 4 anni, mentre il tasso di cambio si era deprezzato dell’84% contro il dollaro.
Ma la crisi era, soprattutto, di origine fiscale. Nel 1921, le entrate coprivano appena il 37% delle spese, anche se già nel 1922 la copertura era salita al 75%. Ma la fragilissima Repubblica di Weimar si trovò agli inizi del 1923 ad affrontare le accuse di Francia e Belgio di non rispettare i pagamenti delle riparazioni di guerra, decise con il Trattato di Versailles e che prevedevano clausole molto punitive per i tedeschi. Impossibilitato nell’aumentare ancora di più le tasse, il governo iniziò a monetizzare il debito. Fu la fine.
La quantità di moneta stampata dalla Reichsbank raddoppiò da aprile a maggio (da 8,6 a 17,3 miliardi), mentre ad agosto era già di 669,7 miliardi di Papiermark, ma a novembre aveva raggiunto la cifra astronomica dei 400 quintilioni (400 x 10 alla diciottesima) di Papiermark. I prezzi erano ridicoli: una barretta di burro veniva venduta a 5 mila miliardi di marchi, mentre un chilo di pane costava ormai 4.500 miliardi.
L’economista inglese John Maynard Keynes, che in quei mesi si trovava in Germania, riportò nel suo famoso Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta alcuni aneddoti divertenti, ma che davano la sensazione della tragedia tedesca dell’iperinflazione: chi entrava al bar, prendeva direttamente due birre, perché il tempo di sorseggiarne una, che già i prezzi erano saliti. Così come conveniva prendere il taxi, perché la tariffa si pagava a fine corsa, quindi, a prezzi già svalutati, mentre sul bus bisognava pagare in anticipo.
Inflazione Germania: la lezione di Weimar
A questa oscenità monetaria si pose fine solo il 15 novembre 1923, quando la banca centrale tedesca smise di monetizzare il debito ed emise una nuova valuta, il Rentenmark, con destino totalmente diverso. Il 20 novembre moriva il governatore Rudolf Havenstein e nello stesso giorno la carica veniva ricoperta dal successore Hjalmar Schacht, che restò al suo posto anche sotto il nazismo, nonostante fosse di origini ebraiche.
Schacht convertì il Papiermark nel nuovo marco a un tasso di cambio di un miliardo a uno, mentre il tasso di cambio tra Papiermark e dollaro USA divenne di 4,2 miliardi a uno. Da qui, il tasso Rentermark-dollaro di 4,2, in vigore prima della Grande Guerra.
Quasi di colpo, l’inflazione rientrò. I prezzi smisero di salire dalle percentuali astronomiche a cui erano cresciuti. L’emissione di una nuova moneta diede fiducia ai tedeschi, che nel frattempo erano tornati al baratto.
I partiti, il governo, la futura Reichsbank prima e la Bundesbank dopo, nonché gli stessi cittadini-elettori tedeschi capirono la lezione: la furbizia di stampare moneta per ridurre il peso del debito è follia pura. L’irresponsabilità fiscale anche.
Da allora, la Germania – ad oggi unica economia sviluppata ad avere vissuto il flagello dell’iperinflazione – non è stata più la stessa. I governi sono disposti anche a sacrificare un pò di crescita, pur di non avere a che fare con l’inflazione. I conti pubblici in ordine sono diventati un altro target irrinunciabile. Tutti obiettivi – la stabilità dei prezzi e dei conti pubblici – condivisi da destra e sinistra in Germania. Non è solo la Merkel.