Il recente “Decreto Competitività” ha apportato alcune modifiche di una certa rilevanza alle norme del Testo Unico della Finanza (T.U.F.) nella parte riguardante l’emissione delle azioni da parte delle società quotate e non. Alle seconde è stato consentito di emettere azioni a voto plurimo, infrangendo il criterio di “un’azione, un voto”, sul quale si fondava la nostra disciplina. In altre parole, lo statuto di una società non quotata sui mercati regolamentati può prevedere la possibilità di emettere azioni con più di un diritto di voto, che al massimo ne assegni tre.
Per effetto di questa innovazione normativa, un socio con una quota di capitale azionario del 17%, ad esempio, potrebbe arrivare a detenere fino al 51% dei diritti di voto in assemblea, se si trova in possesso di azioni, ciascuna delle quali gli assegni 3 voti, mentre le azioni di tutti gli altri soci fossero ordinarie. Ora, capita anche oggi che azionisti con una percentuale esigua di capitale riescano a detenere il controllo dell’assemblea senza grossi problemi, per lo più nel mondo anglosassone, dove l’azionariato è “polverizzato”, ovvero poco concentrato. Tuttavia, quello che accade con la rivoluzione del Dl è che automaticamente uno o pochi soci potrebbero controllare stabilmente l’assemblea, anche qualora si presentasse il 100% del capitale, per il solo fatto di avere acquistato all’atto della loro emissione azioni con diritti di voto plurimo. La pratica è vietata, invece, per le società quotate, ma dalla finestra è stato fatto entrare un espediente simile, ovvero quello dell’emissione di azioni con diritto di
voto maggiorato. Di che si tratta? Le società quotate possono prevedere nei loro statuti di premiare i soci, che abbiano acquistato e detenuto azioni senza interruzione per un periodo di almeno 24 mesi con la concessione nei loro confronti di un diritto di voto al massimo dopo.