La sentenza della Corte di Cassazione, numero 36754 del 24 luglio 2017, ha affermato che chi non collabora con la polizia non sempre costituisce un illecito. Con la sentenza del 24 luglio si riapre il dibattito sul labile confine su cui viaggia il reato di resistenza al pubblico ufficiale.
La Suprema Corte ha sottolineato che il reato non si configura con la resistenza passiva del soggetto che si rifiuta di eseguire gli ordini di un’agente di polizia, ma è punibile solo chi usa minacce e violenza per opporsi ad un pubblico ufficiale.
La condotta, per configurarsi il reato, quindi, deve essere attiva e violenta, la resistenza passiva non configura illecito.
Resistenza a pubblico ufficiale, quando scatta l’illecito?
Il reato di resistenza a pubblico ufficiale va a tutelare il regolare svolgimento delle funzioni di un pubblico ufficiale e tutela l’incolumità fisica e di prestigio dell’individuo.
Chi usa violenza fisica o verbale o minaccia un pubblico ufficiale viene punito dalla legge: la condotta, però, deve essere posta in atto mentre il pubblico ufficiale compie il suo dovere. La non collaborazione, quindi, non configura nè la violenza nè la minaccia e per questo non fa scattare il reato in questione. Il reato si configura quando il soggetto, con l’uso della violenza e della minaccia, impedisca al pubblico ufficiale di compiere il proprio atto d’ufficio, e la resistenza passiva non rientra nella fattispecie.
Chi, per esempio, accorgendosi che è in arrivo un pubblico ufficiale scappa dalla parte opposta non commette reato poiché applica resistenza passiva così come la esegue chi non agevola operazioni di controllo o non obbedisca a comandi imposti dall’agente (come per esempio il comando di alzare le braccia o di aprire borse o valige per agevolarne il controllo).