Una minaccia, un’intimidazione, un avvertimento che la vicenda non è finita lì potrebbe costituire un reato. E’ quanto chiarisce la Corte di Cassazione con la sentenza numero 44318 del 26 settembre 2017 dopo aver più volte stabilito con sentenze passate che il confine con il reato è sempre molto labile.
La frase “te la faccio pagare”, ad esempio, può essere perfettamente lecita ma anche costituire un reato. Cerchiamo, quindi, di capire qual è il confine e le conseguenze di chi quel confine lo supera.
Se la minaccia implicita nelle parole di chi parla è quella di ricorrere alla giustizia, di rivolgersi a un giudice o di ricorrere ad azioni giudiziarie non presuppone alcun reato poiché si intende solo esercitare un proprio diritto.
Per configurarsi il reato di minaccia, quindi, l’intimidazione mediante la progettazione di un pericolo è essenziale anche se non è necessario che la minaccia si verifichi concretamente. Il solo intimorire con una minaccia fa configurare il reato.
La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che affinché si configuri il reato di minaccia non è necessario che la minaccia sia grave né che questa provenga da un soggetto la cui pericolosità è provata: se la persona è incensurata e la minaccia generica, seppur intimorisca, il reato si configura lo stesso.
In una sentenza del 2012, la numero 18730 la Cassazione ha chiarito che “In tema di minaccia, la norma incriminatrice di cui all’art. 612 c.p. non richiede che il male minacciato debba essere notevole, dovendosi peraltro giungere alla conclusione opposta, considerato che la gravità della minaccia è oggetto di specifica previsione nel secondo comma che, infatti, le assegna il valore di circostanza aggravante (cassata la decisione dei giudici del merito che avevano escluso la configurabilità del reato perché l’espressione utilizzata “te la faccio pagare” non presentava i connotati della prospettazione di un male ingiusto e notevole)”.
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