Non credo che nell’intento del legislatore ci fosse l’intenzione di discriminare i lavoratori autonomi per quel che riguarda lo stato di disoccupazione. Semplicemente è diversa la definizione di lavoratore dipendente da quella di lavoratore autonomo.
Il lavoro autonomo (citando espressamente wikipedia) è la forma di lavoro svolta da un tipo di lavoratore previsto dal diritto del lavoro italiano, definito dall’art.
Esso identifica dunque l’attività di lavoro dei liberi professionisti e dei lavoratori autonomi manuali, con esclusione delle figure imprenditoriali, e necessita dell’apertura di partita IVA.
Il lavoro subordinato, o dipendente (sempre citando wikipedia) indica un rapporto di lavoro nel quale il lavoratore cede il proprio lavoro (tempo ed energie) ad un datore di lavoro in modo continuativo, in cambio di una retribuzione monetaria, di garanzie di continuità e di una parziale copertura previdenziale.
Questo ha di per se una grandissima differenza: la continuità del lavoro subordinato dipende non solo dal lavoratore ma anche dal datore di lavoro, mentre nel lavoro autonomo non si è dipendenti da nessuno.
Questo presupposto elimina lo “status di disoccupato” nel lavoro autonomo, ed ecco perché anche se può sembrare discriminante, non si configura la possibilità di accedere alla NASPI (indennità di disoccupazione).
Si decide di chiudere la partita Iva, che equivale, quindi, a dare le dimissioni, disoccupazione per la quale l’accesso all’ Ape sociale non è previsto. Il beneficio è, infatti, concesso soltanto ai “disoccupati che hanno finito integralmente di percepire, da almeno tre mesi, la prestazione per la disoccupazione loro spettante. Lo stato di disoccupazione deve essere conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale nell’ambito della procedura obbligatoria di conciliazione prevista per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
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