L’inflazione a febbraio avrebbe superato il 6.000% su base annua nel Venezuela, dove il Fondo Monetario Internazionale prevede che arriverà quest’anno al 13.000%. In altre parole, i prezzi negli ultimi 12 mesi sarebbero aumentati di 60 volte. In effetti, per acquistare un kg di zucchero servono ormai 250.000 bolivares, che al mercato nero farebbero poco più di 1 dollaro, ma che rappresentano circa i due terzi del salario minimo mensile di un lavoratore. In pratica, lavorare full-time un intero mese di consentirebbe a mala pena di comprare un chilo e mezzo di zucchero.
Dal prossimo 6 giugno verranno emessi nuovi biglietti dal taglio di 50 bolivares, che sostituiranno quelli da 50.000 emessi solo lo scorso anno. A questo punto, se non venissero sostituiti subito anche i biglietti di taglio più alto, si avrebbe il paradosso per cui le banconote da 50 varrebbero la metà di quelle da 100.000. In ogni caso, siamo dinnanzi a una finta soluzione. L’intento della misura sarebbe di ricondurre i prezzi ai livelli di qualche anno fa, quando si muovevano ancora in una logica a diversi zero in meno, per cui una banconota da 100 bolivar valeva non meno di 4 dollari sul mercato nero all’esordio della presidenza Maduro nel 2013, quando oggi per la stessa cifra servirebbe quasi un milione di bolivares.
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Nelle ultime settimane, Caracas avrebbe incassato 5 miliardi di dollari con l’emissione di 100 milioni di Petro, una moneta digitale formalmente garantita da petrolio o altre materie prime.
Petrolio ai minimi da 35 anni
L’unica risorsa che consente al Venezuela di far affluire dollari è il petrolio, le cui estrazioni sono scese a febbraio a meno di 1,6 milioni di barili al giorno, il dato più basso degli ultimi 35 anni circa, conseguenza dei bassi investimenti realizzati dall’industria negli ultimi anni e dell’assenza di valuta straniera con cui stringere adesso partnership per cercare di sostenere le estrazioni dai pozzi attivi e trivellare nuovi giacimenti. Il peggio, tuttavia, per la compagnia petrolifera statale PDVSA potrebbe arrivare, se è vero che alcuni segnali in arrivo dall’amministrazione Trump lascino presagire tempesta a Caracas.
In pochi giorni, il presidente americano ha cambiato due uomini-chiave della sua squadra di governo: il segretario di Stato e il consigliere alla Sicurezza Nazionale. Rex Tillerson, ex boss di Exxon, è stato sostituito dal capo della CIA, Mike Pompeo; il generale H.R. McMaster da John Bolton. Cosa hanno in comune Pompeo e Bolton? Sono due “falchi”, avendo idee di politica estera e sulla sicurezza ben più decise e forti dei predecessori. E nel mirino dei nuovi responsabili della politica estera e della sicurezza nazionale americana vi sarebbe, tra l’altro, proprio il Venezuela. Finora, Trump è stato convinto a non comminare la massima sanzione possibile contro Caracas, ossia l’embargo contro le sue esportazioni di petrolio o il blocco delle importazioni di petrolio venezuelano negli USA.
A questo punto, non si potrebbe più escludere niente. E si consideri che attualmente solo 800.000 barili al giorno generino entrate reali nelle casse della compagnia, visto che il resto è vincolato al pagamento dei debiti e alle forniture semi-gratuite di greggio agli alleati di Petrocaribe. In sostanza, basterebbe che l’America bloccasse le importazioni dal paese andino per mandarlo definitivamente KO e farne cadere il regime. Che i nuovi membri dell’amministrazione Trump spingeranno per agire in tal senso prima delle elezioni presidenziali (farsa) di maggio?
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