Si parla sempre più di Netflix, sia per lodarne i risultati, sia per attaccare la nuova realtà internazionale dei media, che nel giro di pochissimi anni è diventata un vero colosso. L’altro ieri, i numeri entusiasmanti dell’ultima trimestrale hanno fatto impennare il titolo fino a 337 dollari, capitalizzando la società sui 146 miliardi, per intenderci, oltre 37 volte il valore di Mediaset a Piazza Affari. Su base annua, il rialzo è stato intorno al 235%, dato che segnala il boom in atto di un gigante, che vanta ormai 125 milioni di abbonati in tutto il mondo (5 volte più alti di 6 anni prima) e che intende spendere 8 miliardi quest’anno dopo i 6 del 2017 per produrre e trasmettere serie TV, oltre che film.
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Ma quando si parla di cinema e cultura, la Francia si trova in prima linea per combattere la sua guerra in difesa dell’identità nazionale, oltre che degli interessi dei botteghini. E così, se alla metà degli anni Novanta fu proprio Parigi a fare fallire le trattative sull’accordo di libero scambio con gli USA, lamentando che la sua editoria non sarebbe stata tutelata a sufficienza dall’invasione di Hollywood, stavolta la battaglia si sta combattendo a Cannes, dove ogni anno si celebra il prestigioso festival del cinema. Lo scorso anno, Netflix partecipò con due produzioni (Okja e The Meyerowitz Stories), scatenando le proteste dei produttori transalpini, che hanno notato come in gara vi fossero pellicole che non erano mai state proiettate in alcuna sala cinematografica del paese.
Ora, poiché una legge francese vieta che vengano trasmessi in streaming contenuti che siano usciti in sala nei 36 mesi precedenti, nei fatti a Cannes non sarà più possibile partecipare per Netflix, visto che per gareggiare dovrebbe praticamente rinunciare al suo business. Una vittoria dei produttori “old style”? Senz’altro, ma rischia di essere di Pirro. Anzitutto, premettiamo che il colosso americano ambiva a partecipare a Cannes per un ritorno d’immagine, non perché ne avesse bisogno in termini di fatturato. Ma Netflix sembra avere perso una battaglia nemmeno interessante per il suo business, mentre sarebbe avviata a vincere la guerra.
Il vantaggio di Netflix grazie ai big data
Avete presente le polemiche di queste settimane sull’utilizzo dei “big data” da parte dei colossi della Silicon Valley? Ebbene, sappiate che la stessa Netflix attinge a una miriade di dati dei clienti (legittimamente) per monitorare le loro preferenze e offrire loro contenuti perfettamente in linea con esse. Nulla verrebbe lasciato al caso. Ad esempio, il colosso ha trovato che l’80% delle serie TV seguite dagli abbonati rientrerebbe nel catalogo dei suggerimenti. In particolare, l’utente tenderebbe a scegliere cosa guardare nell’arco di 60-90 secondi, nel corso dei quali scarterebbe tra i 10 e i 20 titoli. Non solo, ma ha anche capito che i film horror che risultano troppo spaventosi per i telespettatori tendono ad essere interrotti intorno al 70% della durata complessiva. Grazie a questi e altri accorgimenti, il tasso di successo dei contenuti offerti da Netflix si attesta intorno all’80%, ovvero a livelli doppi dei contenuti trasmessi dalla TV tradizionale e grazie a questi numeri, avvalendosi dell’uso di algoritmi per meglio garantire un’esperienza positiva ai propri abbonati, avrebbe ricavato un valore di 1 miliardo di dollari in più.
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Cosa vogliamo dire? Netflix gode di un vantaggio competitivo, che le deriva dall’essere in possesso di dati dettagliati sulle preferenze dei clienti. Certo, non tutti si sperticano in lodi per il suo modello di business. Il responsabile della programmazione di HBO, Casey Bloys, ad esempio, ha definito “un’esuberanza irrazionale in stile dotcom di fine anni Novanta” la politica degli ingenti investimenti di Netflix per produrre sempre nuovi contenuti. In sostanza, starebbe bombardando gli abbonati di serie TV e film in streaming, creando una sorta di bolla. E si consideri che la società risulta gravata da 28 miliardi di debiti, a fronte di 3,7 miliardi di ricavi nel primo trimestre di quest’anno, ma soprattutto di un flusso di cassa negativo di 287 milioni. Si consideri che il picco positivo per il “cash flow” fu di 280 milioni nell’intero 2009 e a quei valori servirebbero ben 100 anni alla società per ripagare i suoi debiti, visto che le scadenze possono essere onorate proprio attingendo alla liquidità generata dalla gestione aziendale, che ha esitato sempre saldi negativi dopo il 2011.
Dunque, non mancano le criticità del business portato avanti da Netflix, ma è evidente che questi numeri spiegherebbero una strategia pericolosa proprio per la concorrenza, tradizionale e in streaming. Se continua a bruciare cassa e a indebitarsi, non è certo per stupidità, quanto per la scommessa in atto di sbaragliare gli avversari, attirando sempre più abbonati (a discapito delle pay tv, in particolare), dai quali ricavare un valore crescente. Del resto, ai ritmi di questi anni, da qui al 2021 gli abbonati raddoppierebbero a 250 milioni e ciò consentirebbe la generazione di quella cassa necessaria al ripagamento dei debiti. Del resto, Wall Street valuta il nuovo gigante a oltre 130 volte gli utili e 10 volte il fatturato annualizzati nel primo trimestre, un rapporto eccessivo per non capire che la borsa stessa stia scommettendo sul futuro di una nuova realtà dei contenuti in streaming.