Tre fattori che possono incidere sui rendimenti obbligazionari

Analisi e commento di Chris IGGO, CIO Fixed Income di AXA Investment Managers, sul mercato obbligazionario
6 anni fa
4 minuti di lettura

Dal lancio del Quantitative Easing (QE) non c’è stata abbastanza protezione nelle curve dei rendimenti da tutelare gli investitori nei confronti di alcuni rischi fondamentali che si sono manifestati nel tempo: tassi di interesse reali, premi inflazionistici e rischio di credito. I bassi yield forse erano adeguati all’apice del QE, quando non c’erano segnali né di stretta monetaria né di incremento dell’inflazione o di aumento del rischio di credito e quando il QE era quindi pensato per spingere i portafogli a investire in strumenti più esposti al rischio.

Ma ora le cose stanno cambiando e gli investitori obbligazionari si trovano di fronte a un incremento di tutti e tre i fattori di rischio fondamentali. Il primo riguarda i rendimenti reali. C’è chi dice che i premi a termine siano saliti.

1. Il rischio dei tassi di interesse reali

Io preferisco pensare che i rendimenti reali stiano salendo perché l’economia globale è stata robusta e perché il percorso futuro dei tassi di interesse è incerto. Questo è il primo fattore che ha inciso sui rendimenti obbligazionari. L’aumento dei rendimenti reali, a parità di tutti gli altri fattori, comporta un calo dei prezzi obbligazionari e rendimenti negativi, che sono ancora più negativi quando l’inflazione sale. Da notare che prima della crisi finanziaria, gli yield obbligazionari reali, misurati dallo yield delle obbligazioni indicizzate all’inflazione, erano più probabilmente intorno al 2,0%, molto più alti di oggi. Anche se i mercati non tornano su questi livelli (poiché il nuovo contesto comporta un calo della crescita della produttività reale e del rendimento del capitale), gli yield reali potrebbero salire ancora, e questo fattore potrebbe gravare sui portafogli obbligazionari.

2. Il rischio di inflazione

La ripresa economica ha determinato un incremento degli yield reali (+1% negli Stati Uniti dalla metà del 2016, +0,9% nell’Area Euro dai minimi di inizio anno e +0,6% nel Regno Unito dall’inizio del 2017).

Non ci sorprende che l’incremento maggiore sia stato negli Stati Uniti, considerato il ritmo di crescita economica, la riduzione della capacità inutilizzata e l’incremento del debito pubblico. Tuttavia, a oggi, all’aumento degli yield reali non è corrisposto un incremento significativo dei premi per il rischio inflazionistico. Misurate attraverso i mercati delle obbligazioni indicizzate all’inflazione, le aspettative inflazionistiche risultano sotto controllo. Nel mercato americano, il tasso di breakeven per i TIPS decennali è inferiore al 2,5% dal 2005 e più recentemente ha oscillato tra il 2,0% e il 2,25%. L’incremento dell’inflazione complessiva sembra aver avuto un impatto contenuto. Il tasso dell’inflazione di breakeven 5y5y forward, un indicatore più puro delle aspettative inflazionistiche basate sul mercato che tanto piacciono alle banche centrali, mostra un andamento analogo.

I breakeven sono più alti oggi che all’epoca dello shock deflazionistico dopo il crollo delle materie prime del 2015, però quest’anno non si sono praticamente mossi. Dunque gli investitori obbligazionari ne hanno risentito doppiamente. Il primo colpo è arrivato con l’aumento degli yield reali. Il secondo, col fatto che i premi per il rischio di breakeven non sono bastati a compensare l’effettivo incremento dell’inflazione. Ora se i premi per il rischio inflazionistico salgono, i prezzi delle obbligazioni nominali dovranno scendere di conseguenza.

Fortunatamente i rischi inflazionistici nel brevissimo termine si sono presi una pausa. A settembre l’inflazione negli Stati Uniti è stata del 2,3%, in calo rispetto al 2,4% del mese precedente. Per i prossimi mesi sembra che l’inflazione resterà stabile. Potrebbe però anche salire considerando la mancanza di capacità inutilizzata, gli incrementi del prezzo del petrolio negli ultimi mesi e le prospettive di nuovi aumenti dei salari. Guardando agli aspetti positivi, ci troviamo su livelli estremi per quanto concerne i rendimenti reali su base annua per i Treasury USA.

Non è capitato spesso negli ultimi trent’anni che il calo reale dei Treasury a 12 mesi abbia superato il 5% (e a settembre eravamo a 4,5%). In futuro, dovremmo assistere a un certo miglioramento dei rendimenti reali perché gli yield saranno già saliti oppure perché l’inflazione rallenterà.

3. Il rischio di credito

Il terzo fattore che potrebbe incidere negativamente sul mercato obbligazionario riguarda un ampliamento degli spread di credito. Esaminiamo il ciclo: un netto miglioramento della crescita del Pil reale conduce a un rialzo degli yield reali; i rischi inflazionistici iniziano ad aumentare mentre matura il ciclo economico, facendo salire i premi per tale rischio; l’economia rallenta poiché la stretta monetaria inizia a farsi sentire e gli spread di credito di conseguenza si ampliano. Questo ha senso in un ciclo di politica monetaria caratterizzato da un timido rialzo dei tassi (vi ricordate Janet Yellen?), un periodo di rialzi dei tassi graduale, in linea con un processo di normalizzazione, e poi una pausa seguita dall’ultima ondata di rialzi poiché la banca centrale teme di essere rimasta dietro la curva. Perdonatemi i riferimenti al mondo delle fiabe, ma ci troviamo ancora nella fase Goldilocks, con le banche centrali che seguono la magica strada di mattoni gialli verso la normalizzazione monetaria.

Eppure, agli investitori sembra di trovarsi davanti al lupo cattivo. Il Quantitative Easing era stato pensato per contenere i rendimenti obbligazionari e per far salire l’inflazione. Alla fine, come potrebbe trattarsi di un fattore positivo per gli investitori obbligazionari? Il problema è che molti sui mercati obbligazionari erano pronti ad accettare il calo degli yield perché al momento faceva salire i rendimenti. Purtroppo, questi rendimenti sono un lontano ricordo e ora dobbiamo affrontare le conseguenze del QE: rialzo dei tassi e aumento dell’inflazione.

Colpiti su ogni fronte

Ci saranno momenti in cui gli yield reali, i premi per l’inflazione e gli spread di credito saliranno contemporaneamente.

Probabilmente sarà una fase di breve durata. È probabile che la fase del ciclo in cui gli spread di credito iniziano veramente a salire si verifichi quando gli utili aziendali rallentano e la crescita economica è in decelerazione. È una situazione che solitamente avviene quando i mercati iniziano a scontare tassi di interesse più bassi (o a escludere un aumento dei tassi, cosa che potrebbe accadere in Europa se il ciclo rallenta prima che la BCE sia persino riuscita ad alzare i tassi). Ci sono implicazioni per l’asset allocation nel reddito fisso.

La fase di fine ciclo in cui ci troviamo attualmente incrementa il rischio collegato a un aumento degli yield reali e a un incremento dei breakeven inflazionistici. Il momento critico nel ciclo dei tassi, impossibile da identificare in tempo reale, scatenerà un aumento degli spread di rischio. Dovrebbe esserci una transizione da una posizione “sottopesata in titoli di Stato a lunga scadenza e sovrappesata nel credito short duration” nella prima fase della stretta monetaria a una posizione sovrappesata sulla duration e sottopesata sul rischio di credito quando la crescita avrà toccato il livello massimo e si inizierà a intravedere la fine del ciclo di rialzo dei tassi. Nel dubbio, ogni incremento della volatilità degli strumenti esposti al rischio dovrebbe essere considerato come un segnale forte per incrementare la copertura obbligazionaria e acquistare più duration.

Mirco Galbusera

Laureato in Scienze Politiche è giornalista dal 1998 e si occupa prevalentemente di tematiche economiche, finanziarie, sociali

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