Il consiglio di amministrazione di TIM ha eletto Luigi Gubitosi nuovo amministratore delegato, al posto di Amis Genish, espressione dell’ex azionista di riferimento Vivendi, sfiduciato la settimana scorsa dallo stesso board a maggioranza. Il commissario straordinario di Alitalia si è dimesso dalla carica ricoperta per oltre un anno e mezzo e ha dato così vita alla nuova fase nella compagnia telefonica, che in quattro anni ha cambiato altrettanti Ad, passando da Franco Bernabè a Flavio Cattaneo, prima dei due sopra citati.
TIM francese accerchiata da governo e privati, ecco la caccia a Vivendi
Che cosa sta accadendo a soli sei mesi dalla clamorosa destituzione di Vivendi dai vertici della compagnia, resa possibile dal blitz di Elliott, benedetto dal governo Gentiloni per il tramite dell’ingresso della Cassa depositi e prestiti nel capitale? Da allora, il titolo TIM in borsa non solo non ha recuperato alcunché, ma risulta aver perso quasi il 40%, a causa specialmente della concorrenza agguerrita dell’operatore francese Iliad con tariffe stracciate. L’Ad israeliano, che pure era rimasto al suo posto come compromesso tra vecchia e nuova guardia, non sembra essere stato capace di attirare la fiducia degli investitori in poco più di un anno alla guida della compagnia. Da qui, la necessità per il fondo speculativo americano di segnalare discontinuità, volendo evitare di finire nei prossimi mesi nel mirino degli altri fondi internazionali – gli stessi che lo hanno sostenuto nella sua rapida ascesa in TIM – e per le stesse ragioni addebitate al finanziere bretone Vincent Bolloré.
L’asse tra Elliott e governo
Anche nel caso della cacciata di Genish, il governo italiano, che nel frattempo ha cambiato pelle e colore, non è rimasto neutrale.
Qui si apre il fulcro della discussione. I francesi di Vivendi sono contrari allo scorporo non per ragioni industriali – Vivendi punta essenzialmente a rendere TIM innocua nel panorama europeo – quanto per il fatto che, privata della rete, l’ex monopolista varrebbe in borsa molto, molto meno di oggi, sia perché perderebbe l’infrastruttura, sia anche perché essa frutta in termini di tariffe pagate dai concorrenti per avervi accesso. Insomma, trattasi di una gallina dalle uova d’oro. Senza di essa, TIM diverrebbe una compagnia qualunque, destinata a maturare utili sulla base solamente della sua capacità di tener testa alla concorrenza sulle tariffe in condizioni di parità sul mercato.
Però, se TIM fosse costretta a vendere la rete, incasserebbe un bel po’ di soldi. Quanti? Il valore della rete di recente è stato stimato in 10-15 miliardi di euro, quando tutta la compagnia oggi a Piazza Affari ne vale a stento poco più di 11. Probabile, però, che il prezzo di mercato si collochi nel limite basso della forchetta, se non al di sotto di esso, anche perché più Open Fiber avanza km per km, minore il valore della rete in rame di TIM.
TIM ridiventa un po’ italiana, ma adesso battaglia sulla rete
Le ipotesi che impattano sulle bollette del telefono
Tre le ipotesi operative: TIM deterrebbe il controllo quota-parte della newco; la rete verrebbe sottratta a TIM; la rete verrebbe assegnata pro-quota agli attuali azionisti di TIM. Nel primo caso, il crollo di valore di TIM in borsa sarebbe minore, visto che la compagnia continuerebbe a gestire la rete, pur da una posizione non più di assoluto controllo, anzi possibilmente da socio di minoranza per quanto sopra detto e in condizioni di parità per l’accesso rispetto alla concorrenza. In questo caso, però, TIM non incasserebbe alcunché, non essendovi formalmente una cessione, bensì una pura separazione. Se, invece, la rete dovesse essere venduta per obbligo normativo, la compagnia dovrebbe riscuotere il prezzo offertogli dai pretendenti. Due i dubbi: chi comprerebbe e chi pagherebbe? Lo stato di quattrini non ne avrebbe e difficile che la Cdp si accolli il costo di un’operazione per una decina di miliardi.
Infine, se la rete scorporata fosse assegnata in capo agli azionisti pro-quota, Vivendi deterrebbe il 24% dell’infrastruttura. Se vendesse, monetizzerebbe fino a circa 2,5 miliardi di euro, rientrando in buona parte del costo sostenuto due anni fa per acquisire il controllo di fatto di TIM. Il problema è che, come dicevamo, il valore della rete non sembra così certo. Un emendamento al decreto fiscale, presentato dal Movimento 5 Stelle, medierebbe tra le due opposte esigenze: quella di Elliott di mettere a segno lo scorporo e incassare il dividendo della scalata di inizio anno; l’altra di Vivendi di non soccombere del tutto alla svolta.
Da anni, quando si parla di scorporo della rete, si litiga tra TIM e governo su un punto: quanti debiti e quanti lavoratori appioppare alla rete scorporata? Chiaro che sia conveniente per la compagnia spingere per massimizzare le risorse in uscita, così da liberarsi di oneri. Viceversa, lo stato non vorrebbe accollarsene più del dovuto, altrimenti il valore reale della rete ne uscirebbe depresso. Se, però, la newco si prendesse qualche migliaio di lavoratori in più rispetto alle esigenze effettive e tale maggiore costo potesse essere scaricato sulle società clienti – le stesse che offriranno agli utenti finali i servizi telefonici e relativi alla navigazione – tutti apparentemente ci guadagnerebbero. TIM, essendosi sgravata di costi ordinari; la newco, che potrà imporre tariffe più alte ai clienti, trasferendo loro i maggiori oneri. A perderci ci sarebbero di sicuro gli utenti, ossia noi: pagheremmo le bollette del telefono più di quanto dovremmo, a meno che TIM non approfitti dello sgravio ricevuto per offrire tariffe più basse di quelle odierne, accrescendo la pressione sui concorrenti, i quali sarebbero costretti ad abbassare le loro per non soccombere sul mercato domestico, a tutto discapito dei loro margini. Vedremo se prevarrà la logica del mercato o quella collusiva, tipica delle configurazioni oligopolistiche. Se la storia insegna qualcosa, pare che la seconda avrà la meglio e le bollette del telefono possano rincarare.
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