Ricevendo un dottorato honoris causa in Economia alla Scuole Superiore Sant’Anna di Pisa, il governatore della BCE, Mario Draghi, si è detto “orgoglioso di essere italiano”, tenendo una lectio magistralis agli studenti presenti, intenta a fornire loro spiegazioni convincenti sul vantaggio di restare nell’euro. Quando eravamo nello SME, il Sistema Monetario Europeo vigente dal 1979 e fino alla nascita dell’euro, ha spiegato che l’Italia svalutò la lira per ben sette volte, registrando una crescita della produttività inferiore a quella delle 12 economie dell’area, crescendo sostanzialmente in linea con esse ed esitando un tasso di occupazione stagnante.
Prendendo per buona l’affermazione di Draghi, dunque, verrebbe meno il caposaldo dell’impostazione sovranista italiana (e non solo), cioè che con una moneta e una banca centrale nazionali, l’economia beneficerebbe di tassi adeguati alla propria condizione reale, anziché dovere subire la politica monetaria altrui. In realtà, la tempesta valutaria estiva di Turchia e Argentina ha dimostrato come la situazione sia ben più complessa. Le due economie emergenti sono certamente sovrane sul piano monetario, eppure ciò non ha risparmiato loro la necessità di alzare i tassi a livelli elevatissimi per non subire un crac finanziario dopo il crollo dei tassi di cambio, che in entrambe ha prodotti un’accelerazione della crescita dei prezzi.
Quanto ha affermato Draghi è parzialmente vero, nel senso che la Germania, da economia forte dell’allora SME, di fatto batteva i tempi della politica monetaria nell’area. I tassi di cambio tra le 12 monete, tra cui la sterlina, erano fissati secondo una parità flessibile, cioè che poteva fluttuare all’interno di una banda di oscillazione di una certa percentuale.
Come la Germania fregò l’Italia pure con la lira negli anni Ottanta
Nemmeno con la lira eravamo davvero autonomi sui tassi
Con cambi flessibili, invece, teoricamente il problema non si porrebbe: tassi più bassi provocano deflussi dei capitali verso economie con tassi più alti, subendo un deprezzamento del cambio. Fino a un certo punto, può essere sostenibile, ma quando i deflussi finanziari si fanno ingenti e i tassi di cambio crollano troppo, il rischio di alimentare un’inflazione fuori controllo è alto e, infatti, questa estate sia Ankara che Buenos Aires, obtorto collo, sono state costrette a varare una dura stretta monetaria per riportare la calma sui rispettivi mercati con risultati nemmeno ancora troppo soddisfacenti. Dunque, che un’economia sia dotata di un regime di cambi fissi o uno di cambi flessibili, resta indubbia la necessità per la sua banca centrale di non discostarsi troppo dalla politica sui tassi praticata dalle principali banche centrali del mondo, specie nell’era della globalizzazione, in cui i capitali si spostano in maniera piuttosto semplice.
Dunque, Draghi ha avuto ragione nell’affermare che la Germania con il marco decideva per tutti in Europa sui tassi? Sì e no. In realtà, la stessa Bundesbank non fissava i suoi tassi in maniera del tutto slegata dal trend delle altre principali banche centrali. A dettare i tempi erano fino agli inizi degli anni Novanta la Federal Reserve e la Banca d’Inghilterra. La prima continua a farlo tutt’ora, come notiamo dal fatto che tutti i governatori, che lo ammettano o meno, pendano dalle labbra di quello americano per valutare se sia il caso di alzare o meno i tassi, di restare o meno accomodanti. Prendiamo l’inizio degli anni Ottanta. A causa della seconda crisi petrolifera del 1979, seguita al rovesciamento dello Shah di Persia da parte dell’ayatollah Khomeini in Iran, l’inflazione in tutto l’Occidente era alta, registrando la doppia cifra in economie come l’Italia, dove arrivava a superare il 21%.
Contrariamente alla reazione mostrata alla prima crisi petrolifera del 1973, la Fed con il governatore Paul Volcker e sotto la presidenza Reagan iniziò ad alzare i tassi, anche al costo di mandare l’economia americana in recessione. Lo stesso faceva Londra sotto la Lady di Ferro, Margaret Thatcher, e la Bundesbank si adeguò, così come le altre banche centrali del mondo. L’Italia subì l’impennata del costo di emissione del suo debito pubblico, con una spesa per gli interessi esplosa proprio a partire da quegli anni e fino a un massimo di oltre l’11% del pil, quando anche il nostro Paese dovette prendere atto della necessità di disinflazionare l’economia, con tassi reali positivi dopo anni di “repressione finanziaria”. Pertanto, la parte autentica della lezione di Draghi non consiste nel segnalare che la Germania con l’euro sarebbe costretta a condividere la politica monetaria, mentre prima faceva come le pareva, quanto che, indipendentemente dall’appartenenza o meno a una unione monetaria e dalla dotazione o meno di un regime di cambi flessibili o fissi, i tassi d’interesse non possono essere fissati da alcuna banca centrale in maniera avulsa dal contesto mondiale, a meno di immaginare che un’economia si chiuda in una sorta di autarchia in stile nordcoreano.
L’euro non è la causa della crisi italiana, ecco perché tornare alla lira non serve