Nel 1961, Sandro Ciotti, indimenticabile radiocronista sportivo, esclamò “clamoroso al Cibali” per esprimere lo stupore per le due reti casalinghe messe a segno dal Catania contro l’Inter nell’ultima giornata di campionato e che costarono ai nerazzurri lo scudetto, in favore della Juventus. E c’è del clamoroso anche nell’indiscrezione riportata da La Stampa, secondo cui il governo Conte starebbe valutando l’ipotesi di candidare Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea. Non è calcio, ma politica di alto livello, sebbene lo stupore appaia lo stesso di quello di Ciotti oltre mezzo secolo fa.
Qui, il Catania della situazione sarebbe proprio l’Italia e i panni dell’Inter verrebbero indossati dai suoi detrattori europei. Non è affatto detto che l’operazione riesca, ma avrebbe molte probabilità dalla sua. Interpellato sul tema, il vicepremier Matteo Salvini, il vero “dominus” del governo e della politica italiana di questa fase, si è espresso favorevolmente riguardo all’ipotesi, sostenendo che “Draghi alla BCE ha lavorato con efficacia”. Negli ambienti della Lega, da sempre critici con il governatore, l’apprezzamento sarebbe forte e reale, persino da parte di Claudio Borghi, economista, deputato euroscettico e presidente della Commissione Bilancio alla Camera.
Chi e perché sosterebbe Draghi e cosa significherebbe per noi italiani? Come detto, l’ipotesi arriverebbe da Palazzo Chigi, evidentemente concordata con la Lega e punterebbe a superare lo scenario di un’Italia che rischia di restare a bocca asciutta nella spartizione delle cariche europee, essendo i due partiti al governo estranei alla maggioranza che si va componendo all’Europarlamento (popolari, socialisti, liberali e forse Verdi). Al massimo, Roma arriverebbe a ottenere un commissario con portafoglio economico, come quello alla Concorrenza, che in passato fu di Mario Monti. Poco per uno stato fondatore della UE e che resterebbe tagliata fuori da tutte le cariche principali, ossia presidenza della Commissione, della BCE, dell’Europarlamento e del Consiglio europeo.
Draghi costringe il successore a tenere l’Italia nell’euro
Lo sblocco dell’impasse politica
Draghi come successore di Jean-Claude Juncker sarebbe un’ipotesi che andrebbe bene, dopo un’analisi attenta, allo stesso asse franco-tedesco. Perché? Pur essendo espressione dell’Italia, si contrappone vistosamente al suo populismo euroscettico. Nominarlo alla presidenza, sarebbe una indiretta assicurazione per la permanenza dell’Italia nell’Eurozona e riappacificherebbe almeno parte dell’opinione pubblica italiana alle istituzioni comunitarie, in quanto verrebbe segnalato un atteggiamento di rispetto verso la nostra Nazione.
Inoltre, Draghi sarebbe politicamente super partes e ciò sbloccherebbe l’impasse sulle nomine, dovuto alla vittoria monca del PPE alle elezioni europee di maggio. Né i popolari e né i socialisti avrebbero i numeri per mandare un loro uomo a Palazzo Berlaymont e si rischia una seria frattura tra Germania e Francia, i cui leader appaiono più deboli che mai sul piano politico. A questo punto, la disputa potrà concentrarsi sulle altre caselle rimaste vuote, a partire dalla BCE, che la Germania vorrebbe guidare con il suo Jens Weidmann, fiero oppositore di Draghi nel board fino a poco tempo fa, ma da poco folgorato sulla via di Damasco. E l’Italia si è mostrata già a inizio anno disponibile ad appoggiarlo, un fatto che agevolerebbe adesso proprio il “baratto” con Draghi.
Non facciamo facili equazioni, per cui un italiano alla guida della Commissione farebbe i nostri interessi e potremmo continuare a spandere e spendere come se nulla fosse. Non sarebbe per nulla così. Tuttavia, l’eventuale nomina aiuterebbe moltissimo. Anzitutto, perché i mercati avvertirebbero che la posizione politica dell’Italia sarebbe meno debole di quanto sinora sia stata e il rischio percepito di uscita dall’euro diminuirebbe sensibilmente, così come quello stesso sovrano, vista la maggiore (presunta) facilità con cui Roma e Bruxelles riuscirebbero ad accordarsi sui target fiscali.
Ecco perché Draghi in Portogallo ha sorpreso tutti su tassi e QE
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Non solo. Draghi alla BCE si è distinto per una politica monetaria non ortodossa, in grado di salvare l’euro con tre sole parole (“whatever it takes”) nella drammatica estate del 2012, evitando anche che l’Eurozona scivolasse nella deflazione con il “quantitative easing”, tutte mosse osteggiate dalla Bundesbank, pur dietro le quinte avallate dal governo tedesco. La sola leva monetaria non è sufficiente a garantire la ripresa dei prezzi e dell’economia nell’area, tanto che lo stesso Draghi si sgola da anni – e sempre più negli ultimi mesi – affinché gli stati che dispongono di margini fiscali (la Germania e pochi altri) li utilizzino per sostenere l’intero continente.
Nel suo ultimo intervento da Sintra, Portogallo, nei giorni scorsi è arrivato a invocare la nascita di un “safe asset” europeo, cioè ha auspicato l’emissione di bond sovranazionali per ridurre lo strapotere dei Bund. La sua nomina a presidente della Commissione finirebbe per essere percepita come l’inizio di un’era fiscalmente meno restrittiva, seppure non lassista nel sud, così come di sostegno al piano di Macron di unione fiscale per rendere l’euro una moneta dalle basi finalmente solide. Un toccasana per i BTp, che risentono ad oggi dei dubbi sui mercati sul futuro dello stesso euro, oltre che sulla sostenibilità del nostro debito pubblico.
Certamente, la Germania vorrà ottenere rassicurazioni sui piani futuri di Draghi a Bruxelles e otterrebbe per la prima volta la guida della politica monetaria. Il futuro dell’area si mostrerebbe meno accomodante su tassi e QE, ma più espansivo sui conti pubblici. E ciò farebbe contenta l’America di Donald Trump, con quest’ultimo ad avere dichiarato da poco di volere assumere proprio Draghi al posto del governatore della Federal Reserve, Jerome Powell. Battuta? Fosse per il tycoon, non proprio.
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