La Banca Nazionale Svizzera ha aumentato le riserve valutarie in ottobre al nuovo record storico di 779,137 miliardi di franchi, pari a oltre il 110% del pil dello stato alpino. Questa montagna di valuta straniera è denominata per il 35% in dollari USA, per il 39% in euro, 9% in yen, 7% in sterline, 3% in dollari canadesi e 7% in altre divise. Dunque, qualcosa come oltre 270 miliardi risultano investiti in assets americani. Di questi, 94,1 miliardi di dollari in azioni di società quotate a Wall Street. Pensate che 5 anni fa, l’ammontare di partecipazioni negli USA della BNS era ancora intorno ai 26 miliardi, poco più di 4 volte in meno di oggi.
I rendimenti svizzeri crollano e Zurigo interviene contro il “super” franco
In particolare, Zurigo ha investito in titoli della Silicon Valley, con 3,42 miliardi di dollari di valore della sua partecipazione in Apple, 3,37 in Microsoft, 2,40 in Amazon, 1,41 in Facebook e 1,26 in Google. In tutto, qualcosa come un ottavo del totale delle partecipazioni negli USA. Tuttavia, rispetto al picco di 19,2 milioni di azioni Apple nel terzo trimestre del 2017, a settembre era scesa a 15,3 milioni, cioè in due anni risulta avere venduto quasi 2 milioni di azioni di Cupertino.
Perché questo altissimo livello delle riserve valutarie svizzere? La BNS cerca da anni di tenere sotto controllo il cambio, al fine di evitare un eccessivo rafforzamento del franco svizzero. Pensate solamente che prima dello scoppio della crisi finanziaria mondiale, 1 euro arrivò a comprare oltre 1,60 franchi, mentre oggi meno di 1,10. Tra il settembre 2011 e il gennaio 2015, periodo critico per la moneta unica, la BNS impedì al cambio di scendere sotto 1,20 contro l’euro e per farlo dovette acquistare assets in valuta straniera per un controvalore di 300 miliardi di franchi. Non bastò e l’istituto introdusse i tassi negativi sui depositi delle banche presso di sé, vedendosi costretto ad abbandonare la difesa del cambio minimo per evitare di accumulare riserve all’infinito.
Acquisti di assets per sostenere l’inflazione
Il governatore Thomas Jordan teme che il “super franco” finisca per deprimere le esportazioni, colpendo l’economia alpina, nonché per importare deflazione dall’estero, riducendo sin troppo il costo dei beni acquistati da altri stati. E così, nel giro di 10 anni la BNS ha acquistato assets per un totale di quasi 700 miliardi di franchi, senza riuscire nemmeno a tenere a bada il franco, con l’inflazione in calo dello 0,3% su base annua a ottobre e da 9 anni e mezzo sotto l’1%, tranne per qualche mese nel 2018.
Con la scusa di dover sostenere la crescita interna dei prezzi, la BNS sta facendo incetta di dollari ed euro, in particolare, comprando non solo bond con rating “investment grade”, bensì pure azioni, come abbiamo appena visto. Senonché, questo sta trasformandosi in un problema di non poco conto, in quanto abbiamo una banca centrale che è diventata proprietaria, pur da posizioni di azionista di minoranza, di società private e all’estero, intrecciando sé stessa con l’andamento dei mercati finanziari. E chi ci ha seguiti su Investire Oggi sa che la stessa BNS è quotata alla Borsa di Zurigo. Una sua azione la si compra oggi a 5.340 franchi, quasi il 400% in più rispetto a 5 anni fa, seppure di circa il 36% in meno rispetto all’apice toccato nella primavera dello scorso anno a 8.380 franchi.
La minaccia della deflazione sta spingendo il board dell’istituto a ipotizzare nuovi interventi sul fronte tassi e non solo. Questo significa anche che l’accumulazione di azioni e obbligazioni in pancia alla BNS è ben lungi dall’essere cessata. La Svizzera, tramite la sua banca centrale, rischia di comprarsi una fetta di America e, prima o poi, anche del resto d’Europa. E se ancora le cifre in gioco non autorizzano per il momento a lanciare allarmi, cosa accadrà quando le percentuali di Wall Street e delle borse europee in possesso della BNS diverranno importanti e magari le altre banche centrali, frustrate dall’inefficacia delle loro politiche monetarie, inizieranno a imitare Zurigo anche su questo versante? Avremmo ancora l’impudenza di chiamarlo libero mercato?