Nicola Zingaretti è inquieto. Rilascia poche dichiarazioni, quasi esclusivamente per difendere l’operato del governo Conte e, in particolare, la figura del premier dagli attacchi paradossalmente provenienti perlopiù dallo stesso Movimento 5 Stelle, oltre che dai renziani di Italia Viva. Il segretario del PD non è felice di questi primi due mesi abbondanti di vita per la maggioranza “giallo-rossa”. Non si aspettava una vera luna di miele con Luigi Di Maio e Matteo Renzi, quest’ultimo sempiterna spina nel fianco dei post-comunisti, ma nemmeno risse quotidiane anche sulla punteggiatura.
Certo, scorporando il dato di Renzi, che si è fatto un partito per conto suo, non va in sé malissimo, ma il governatore del Lazio sa anche che più passa il tempo e più Italia Viva rischia (per lui) di attecchire tra gli elettori, rosicchiando consensi al PD di settimana in settimana con i suoi distinguo illimitati. Inoltre, i 5 Stelle sono in caduta libera, di questo passo prossimi all’estinzione e la disperazione, si sa, porta a compiere gesti anche distruttivi, per sé e chi vi sta attorno.
Anziché continuare a giocare di rimessa, Zingaretti vorrebbe anticipare tutti, Di Maio e Renzi in primis, staccando la spina al governo Conte. Per farlo, dovrà sciogliere due grossi nodi: come e quando. Serve un tema di rottura popolare, altrimenti rischia semplicemente di essere accusato dai 5 Stelle di aver voluto la crisi di governo per non rendere effettivo il taglio dei parlamentari. Premesso ciò, la finestra temporale che gli si presenterebbe quale opportuna sarebbe quella tra il 12 e il 26 gennaio. Entro la prima data, 64 senatori dovranno firmare per richiedere il referendum confermativo del taglio dei parlamentari. Ad oggi, le firme raccolte si fermerebbero a 50.
Congresso PD a inizio 2020, Zingaretti è già segretario uscente
La finestra di gennaio
Cosa succede se se ne trovano altre 14? Il taglio non diventa automatico, ma dovrà attendere l’esito referendario.
Se Zingaretti perdesse l’Emilia, sarebbe non solo la fine del governo Conte-bis, bensì pure la sua da segretario del PD. Serve una mossa per scombinare gli eventi, per cui se i sondaggi restassero da brivido anche dopo Natale, egli prenderebbe a preteso qualsiasi scusa per mandare a gambe per aria l’esecutivo. Mattarella scioglierebbe le Camere, i dem non potrebbero certo cambiare il segretario a inizio campagna elettorale e, comunque andassero le regionali, la sua poltrona sarebbe salva. Se, poi, la crisi di governo ringalluzzisse il suo elettorato in Emilia-Romagna, tanto meglio. Non dimentichiamo che anche dopo la scissione, Zingaretti guida un PD che alle Camere risulta composto perlopiù da parlamentari “renziani”, cioè a lui ostili e ben contenti di dargli il benservito alla prima occasione utile.
Ecco, quindi, che il fratello del commissario Montalbano tutelerà l’esecutivo fino all’approvazione della manovra, dopodiché fingerà di tirare i conti con gli alleati e magari “strapperà” più con i renziani che non con i 5 Stelle, verso i quali nutre credibili speranze di alleanze anche dopo la caduta del governo Conte. Entro il 12 gennaio farebbe raccogliere tra i suoi le firme necessarie per richiedere il referendum confermativo e subito dopo, magari a un paio di settimane dalle regionali, dirà agli italiani “signori, ci abbiamo provato, ma non è andata come speravamo”.
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