Benvenuta deflazione nell’era del petrolio a 25 dollari, ma non per tutti

Il prezzo del petrolio è collassato poco sopra 25 dollari e anticipa l'arrivo della deflazione, un fenomeno sinora noto più in teoria che all'atto pratico presso le economie moderne. Per altri stati, però, sarà inflazione.
5 anni fa
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Il prezzo del petrolio è sceso ai minimi dal 2002. Ieri, un barile di Brent si è schiantato sotto i 25 dollari e uno di WTI a 22. Nemmeno all’apice dell’ultima crisi petrolifera avevamo assistito a valori così bassi. Martedì, Goldman Sachs ha stimato per il secondo trimestre una discesa delle quotazioni in area 20 dollari, a causa della minore domanda per l’emergenza Coronavirus. Cosa stia accadendo è abbastanza chiaro. Le principali economie mondiali, prima la Cina e adesso Europa e USA, hanno dovuto adottare misure drastiche per contenere la pandemia, tra cui la sospensione dei voli internazionali e limitazioni dei movimenti anche all’interno degli stati, con l’Italia a fare da apripista alla chiusura di quasi tutte le attività commerciali, artigianali, industriali e dei servizi non strettamente connesse alla sopravvivenza.

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Gli aerei volano senza passeggeri o non decollano affatto, di auto in giro ne circolano molte meno e ci si sposta il minimo necessario per fare la spesa o poco altro. Inutile dire che il turismo di questi tempi non esista. Questo scenario spettrale sta riducendo di giorno in giorno i consumi di petrolio, mentre l’offerta continua a ristagnare sui livelli pre-Coronavirus, dopo che Arabia Saudita e Russia non hanno trovato l’accordo per tagliare la produzione. Anzi, dopo il “niet” di Mosca, i sauditi hanno tagliato i prezzi ai clienti di Asia, Nord America ed Europa del 10% e al contempo hanno annunciato che esporteranno 300.000 barili in più al giorno, puntando ad arrivare al potenziale massimo dei 12 milioni di barili di produzione giornaliera.

Il crollo del petrolio segnala lo stato di fermo delle attività produttive nel pianeta. E a sua volta, genera aspettative d’inflazione sempre più glaciali. Il Treasury a 5 anni con cedola fissa ieri rendeva lo 0,68%, mentre quello indicizzato all’inflazione sulla medesima scadenza si aggirava allo 0,51%.

Il differenziale o “breakeven”, una misura delle aspettative d’inflazione a medio-lungo termine, risultava così di appena lo 0,17% medio all’anno per i prossimi 5 anni. In altre parole, il mercato sconterebbe finanche una fase di deflazione nell’immediato, seguita da una risalita assai contenuta dei prezzi.

Le aspettative del mercato

Nell’arco di un decennio, le cose non migliorerebbero granché. Ieri, il differenziale a 10 anni si attestava allo 0,40%, del tutto simile a quello captato dai Bund per i prossimi 6 anni. Dunque, i prezzi resteranno fermi nel complesso. E si consideri che questi dati non indicano una misura esatta dei prezzi futuri, quanto le aspettative del mercato, per cui dovremmo più che altro dedurne la tendenza, che si mostra parecchio negativa sulla dinamica a medio e lungo termine. La deflazione, da fenomeno sinora noto più sui libri di storia che non per esperienza diretta delle attuali generazioni, potrebbe attecchire come scenario nemmeno di breve durata. Del resto, il Giappone ci combatte contro da oltre un ventennio e senza risultati soddisfacenti e stabili.

La deflazione è letteralmente l’opposto dell’inflazione, cioè una discesa generale dei prezzi al consumo. Di per sé non segnala crisi, anzi abbiamo scritto più volte come sarebbe un fenomeno connaturato, fino a un certo punto, alle società tecnologicamente avanzate, economicamente mature, demograficamente vecchie e altamente esposte alla concorrenza internazionale. Le banche centrali europee, salvo qualche eccezione, non riescono a centrare i rispettivi target d’inflazione da almeno 7-8 anni e di questo passo non vi riusciranno nemmeno nei prossimi.

La deflazione è temuta dai governi e dalle banche centrali per diverse ragioni. Anzitutto, deprime il valore delle economie e “gonfia” il peso dei debiti nominali, facendo saltare nel tempo i bilanci degli stati, ma anche del settore privato.

Inoltre, disincentiva i consumi, dato che il consumatore è consapevole che rinviare un atto di acquisto nel tempo gli consentirebbe di spendere di meno. Per contro, le imprese sono incentivate ad anticipare la produzione per non vendere a prezzi futuri inferiori, ma innescando così un eccesso di offerta tendenzialmente depressivo per l’economia.

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L’impatto sui paesi produttori

Con il petrolio in area 25 dollari, cioè collassato dei due terzi da inizio anno, probabile che l’Eurozona scivolerà in deflazione, oltre che in recessione. Quest’ultima farà il resto. Prezzi in caduta saranno un sollievo per i consumatori, pur una vittoria di Pirro se nel frattempo si sarà perso il lavoro e con esso il reddito con cui effettuare i consumi. Ma non tutti gli stati al mondo saranno in deflazione. I produttori di petrolio, ad esempio, vivranno verosimilmente il fenomeno opposto. Il rublo nell’ultimo mese ha perso oltre il 20% contro l’euro, per cui sta già sperimentando un aumento veloce dei costi per i beni importati, cioè inflazione.

L’Arabia Saudita non ha un cambio flessibile, ma il suo “peg” contro il dollaro finisce per intaccare le riserve valutarie, sebbene queste siano ancora abbondanti, sopra i 500 miliardi di dollari. Nemmeno Riad, però, può permettersi a lungo di vedersi assottigliate le riserve, altrimenti rischierebbe di precipitare in una crisi finanziaria e subito dopo economica. Per evitare tale scenario, sarebbe costretta a compensare le minori entrate fiscali con tagli alla spesa pubblica, tra cui dei sussidi di cui beneficia la popolazione, e aumentando altre imposte. Per via indiretta, quindi, i sudditi sauditi finirebbero per vedere aumentato il costo della vita, tra tasse più alte e benzina non più semi-gratis come sino ad oggi.

Poiché la stragrande maggioranza delle compagnie petrolifere mondiali estrarrebbe barili in perdita a queste quotazioni, con il tempo la produzione scenderà e i prezzi risaliranno.

Questo, se l’unico ragionamento compiuto fosse di mercato. Ma a parte gli USA, il resto degli altri grandi produttori di greggio possiede compagnie statali, alle quali i rispettivi governi impongono politiche di prezzo/offerta legate a finalità geopolitiche. Né Russia, né Arabia Saudita intendono cedere quote di mercato, specie in Asia, alle compagnie americane. Per questo, terranno i prezzi bassi a sufficienza da costringere numerose tra di esse a chiudere o, comunque, a farsi male. Nel frattempo, la deflazione attecchirà in Europa, Giappone e Nord America. E una volta arrivata, la storia insegna che non se ne va via così velocemente.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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