Il dollaro stravince per ora la partita sul mercato dei cambi, anche se per il presidente americano Donald Trump non sarà una grande notizia. Dall’inizio dell’anno, guadagna mediamente il 5% contro le altre valute, salendo ai massimi da inizio millennio, quando alla Casa Bianca c’era George W.Bush. Mercoledì, la sterlina è scesa contro il dollaro ai minimi dal 1985, scambiando a meno di 1,15 e arrivando a perdere quest’anno circa il 13,5%. E ancor prima dell’annuncio della BCE sul varo del piano anti-Coronavirus (PEPP), il cambio euro-dollaro era ridisceso sotto 1,10, toccando un minimo inferiore a 1,08.
Drammatici i cali di alcune valute emergenti. Il rublo si è deprezzato del 20% contro il biglietto verde da inizio anno, risentendo del crollo delle quotazioni petrolifere ai minimi dal 2002. Ancora peggio è andata al peso messicano, che ha segnato un calo del 22,5%. E il rand sudafricano stesso sfiora il -20% quest’anno. Insomma, i mercati stanno vendendo di tutto per appropriarsi dei dollari. E poco importa che la Federal Reserve abbia azzerato i tassi e varato diverse misure per iniettare liquidità a fiumi, cercando di rasserenare sulla disponibilità dei dollari. Tutti vogliono la valuta di riserva mondiale, l’unica percepita in grado di mettere al sicuro dalle tensioni internazionali di questa fase.
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Questo pesa negativamente sulla stragrande maggioranza delle materie prime, già deboli di loro con la crisi globale, ma che si deprezzano ulteriormente per la forza del dollaro, valuta nella quale vengono perlopiù acquistate. Per i paesi esportatori, generalmente economie emergenti, un doppio dramma: vendono a prezzi più bassi, pur approfittando parzialmente dell’effetto cambio, e si ritrovano a onorare debiti dal valore in crescita. Infatti, il principale problema del super dollaro consiste nella maggiore difficoltà di quelle imprese, banche e degli stati che si sono indebitati in valuta americana di ripagare i prestiti ricevuti.
Contraccolpi sui mercati emergenti
Il rischio default cresce presso le economie emergenti, dove il fatturato delle esportazioni arretra e il peso dei debiti aumenta, mentre crea pressioni deflattive negli USA. Un cambio più forte riduce il costo dei beni importati e di fatto si traduce in un restringimento delle condizioni monetarie. A questo punto, viene da chiedersi se il coordinamento tra le principali banche centrali stia funzionando o se vi sia in programma un qualche intervento per evitare volatilità eccessiva dei rispettivi cambi. Il fatto è che già oggi Europa e Giappone registrano tassi d’inflazione molto bassi e nettamente inferiori ai target, per cui tutto avallerebbero, tranne che un rafforzamento delle rispettive valute, che finirebbe per trascinare le economie in deflazione e per aggravare la recessione, riducendo la competitività delle imprese.
Del resto, se tutti comprano dollaro è perché gli stimoli monetari della Fed sono stati replicati da BCE, Banca d’Inghilterra e Banca del Giappone, in particolare. In un certo senso, è come se fossero stati neutralizzati sul piano degli effetti valutari. Ad esempio, monitorando lo spread Treasury-Bund a 10 anni, ci accorgiamo come le aspettative sul cross per il prossimo decennio siano letteralmente implose in poche settimane, scendendo sotto 1,25 da oltre 1,35 di inizio anno. Dunque, il mercato si attende una BCE relativamente più accomodante nel medio-lungo periodo rispetto a qualche mese fa, ovvero ha un sentimento meno positivo sull’economia dell’Eurozona nei prossimi anni.
Il super dollaro finanzierà il secondo taglio delle tasse di Donald Trump
Il super dollaro compromette la politica monetaria presso i mercati emergenti. Da un lato, le loro banche centrali avrebbero modo di tagliare i tassi, approfittando dell’azzeramento negli USA, dall’altro le tensioni valutarie riducono gli spazi di manovra.