Dalla seconda metà di febbraio, i BTp sono entrati in modalità “sell-off”, passando dai rendimenti ai minimi storici in vari casi, a rialzi consistenti. E’ stato l’effetto Coronavirus, che ha fatto schizzare il costo medio del nostro debito pubblico quotato sul mercato secondario dello 0,60%. Ma in aprile, malgrado la BCE stia concentrando gli acquisti con il PEPP, il piano d’emergenza contro il Coronavirus da 750 miliardi, sui titoli di stato italiani, il loro rendimento continua a crescere. Il BTp a 7 anni, che capta meglio di tutti l’andamento generale per via della durata media residua dello stock, ieri si aggirava in area 1,35%.
BTp€i e BTp Italia o titoli ordinari per fronteggiare la crisi post-Coronavirus?
Per fortuna, la vita media del debito italiano si attesta a poco meno di 7 anni, ragione per cui l’impatto negativo della lievitazione dei rendimenti sui conti pubblici non sarà immediato. Tuttavia, a causa delle corpose emissioni che ci attendono entro la fine dell’anno per effetto della crisi fiscale in corso e stimabili in altri 400 miliardi di euro, dovremmo mettere in conto sul 2020 un aggravio di spesa per interessi di circa 3 miliardi rispetto ai livelli di febbraio. E, chiaramente, se i rendimenti italiani continuassero a salire, l’extra-costo seguirebbe.
Un modo per contenerlo sarebbe di accorciare la durata delle emissioni future, considerando che i rendimenti tendono a crescere lungo la curva delle scadenze. Non sarebbe, però, una gran mossa. Segnaleremmo ai mercati un debito pubblico meno sostenibile di quanto già temuto dagli investitori e ci esporremmo maggiormente alle tensioni finanziarie nei prossimi anni. Inoltre, assisteremmo verosimilmente persino a un appiattimento della curva, tipica delle fasi di pessimismo del mercato.
Curva dei tassi italiana più piatta
Questi dati ci indicano che, pur in misura non drammatica, la curva si sia già leggermente appiattita, con lo spread 10/2 anni a scendere da quasi 115 a meno di 100 punti. Un anno fa, esso superava i 210 punti, per cui stiamo assistendo a un crescente nervosismo tra gli investitori, come conferma il fatto che ormai il segno negativo per le medio-brevi scadenze sia scomparso dalla nostra curva, mentre rimane su tutta (o quasi) quella tedesca. Il Bund a 30 anni ieri rendeva in positivo di appena 2-3 punti, meno del BoT a 3 mesi, che viaggiava poco sotto lo 0,05%. A San Valentino, i primi offrivano lo 0,12%, il secondo il -0,35%. Da allora, la fuga dal rischio ha spinto i capitali verso i titoli tedeschi, allontanandoli da quelli italiani. In altre parole, oggi accorciare le scadenze, ammesso che fosse una soluzione desiderabile, comporterebbe minori benefici di qualche mese fa.
La Germania ha un debito pubblico dalla vita media residua di 6,7 anni, più corta dell’Italia. E non è un caso: Berlino non ha bisogno di allungare le scadenze, essendo da sempre percepito come un debitore molto solido e, quindi, non esposto agli umori del mercato, anzi beneficiando delle fasi di crisi. In media, quindi, oggi come oggi la Germania s’indebita a un costo medio del -0,55%, l’Italia a uno dell’1,35%. In altre parole, a questi livelli i tedeschi guadagneranno tendenzialmente circa 9 miliardi di euro all’anno, noi italiani ne spenderemo oltre 27 miliardi. Il “gap” grava sui margini fiscali a disposizione dei governi, con la Germania a potersi permettere di intervenire in misura maggiore a sostegno dell’economia tedesca e senza preoccupazioni per l’impatto sui mercati.
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